Copy to Clipboard. Add italics as necessaryCitation: Andrea Cortellessa, «La morte al futuro», dans Pasolini. Dialogues avec la France / Dialoghi con la Francia, éd. Marco Antonio Bazzocchi, et al., Cultural Inquiry, 36 (Berlin: ICI Berlin Press, 2025), p. 191–207 <https://doi.org/10.37050/ci-36_10>

La morte al futuroAndrea Cortellessa

Abstract

Sul rapporto di Pasolini con Barthes — fondamentale, negli anni Sessanta, entro il laboratorio teorico di Empirismo eretico — si è scritto molto; meno forse del reciproco di Barthes, che scrive un pezzo in chiaroscuro all’uscita di Salò ma poco tempo dopo introduce la figura di Pasolini, «sentinella che se ne sta al crocevia», «in posizione triviale rispetto alla purezza delle dottrine», nel testo della famigerata Lezione inaugurale del suo corso al Collège de France (per poi tornarvi nel fondamentale corso sul Neutro). In entrambi gli autori, in tempi e in modi diversi, si riscontra un’attenzione turbata per i paradossi temporali instaurati dalla fotografia, e in particolare per l’intreccio di vita e morte che vi si configura.

Mots-Clés: fotografia; temporalità; morte; entelechia; lutto

«La fotografia mi dice la morte al futuro». Quando Roland Barthes scrive questa frase, nella Camera chiara, sta parlando di una fotografia in particolare (vedi figura 1): quella fatta nel 1865 a un giovane reduce della Guerra di Secessione, Lewis Powell, che aveva tentato di uccidere il Segretario di Stato americano William H. Seward la stessa sera dell’assassinio del Presidente Lincoln da parte di un altro ex soldato della Confederazione, e ripreso da Alexander Gardner mentre, seduto con le mani in ceppi, attende l’impiccagione con un ineffabile sguardo in camera.

Barthes è colpito dal cortocircuito temporale istituito da questa immagine: se ogni foto congela un istante della vita al passato in quello che lui definisce il «noema» della fotografia in generale, cioè «è stato»,1 in questo caso tale passato incontrovertibile coincide con un non meno inevitabile futuro: «Io leggo nello stesso tempo: questo sarà e questo è stato; osservo con orrore un futuro anteriore di cui la morte è la posta in gioco. Dandomi il passato assoluto della posa (aoristo), la fotografia mi dice la morte al futuro. Ciò che mi punge, è la scoperta di questa equivalenza. Davanti alla foto di mia madre bambina, mi dico: sta per morire: come lo psicotico di Donald W. Winnicott, io fremo per Beginning of page[p. 192] una catastrofe che è già accaduta. Che il soggetto ritratto sia o non sia già morto, ogni fotografia è appunto tale catastrofe».2

Come in altre pagine del libro-testamento del 1980, Barthes gioca come si vede con l’ambiguità — consentita tanto dalla lingua francese che da quella italiana — tra «la fotografia» in particolare, intesa cioè come singola e individuata immagine (nella fattispecie quella del bel giovane che fissa con occhi di ghiaccio l’orizzonte della propria morte), e «la fotografia» in generale, intesa invece come genere del discorso visivo, disciplina tecnica e logica testuale. In entrambi i sensi la fotografia mi dice della morte al futuro: come diventa esplicito quando Barthes paragona la foto del condannato a morte a quella della madre bambina. Cioè l’«immagine fantasma» del Giardino d’Inverno di Chennevières che della Camera chiara — ha scritto di recente Emanuele Trevi — è insieme «la pietra di volta» e il vuoto centrale, la foto dalla quale tutto il monologo si diparte ma che, proprio per questo, nel testo non può essere mostrata: un’omissione che «forse è il collante invisibile della sua bellezza».3

Proprio la morte di sua madre Henriette, avvenuta il 25 ottobre 1977, aveva gettato Barthes in un lutto lancinante che segna, in un modo o nell’altro, tutta la sua ultima stagione e in particolare la sontuosa retorica funebre della Camera chiara (come ora sappiamo nel Beginning of page[p. 193] dettaglio, quasi giorno per giorno, grazie alla pubblicazione postuma del suo Journal du deuil: la cui redazione procede in parallelo a quella della «nota sulla fotografia»).4 È da questa immagine in particolare che Barthes trae il suo postulato fondamentale, secondo il quale «in ogni fotografia» si produce quel miracolo esaltante e spaventoso che è «il ritorno del morto»:5 anche in questo caso, si capisce, vale l’ambiguità tra il valore specifico di una singola immagine decisiva e quello teorico, per non dire prescrittivo, da lui attribuito alla fotografia in generale. La «mathesis singularis»6 del Barthes tardo, come la chiamava lui, derivava insomma — per dirla invece nei termini del Pasolini delle Lettere luterane — dalla sua «patente di intenditore in concreto»: cioè dall’esempio «privato e perciò concreto»7 di uno specifico lutto, di uno specifico ritorno del morto.

Questa inversione (o meglio allucinatoria coincidenza) fra passato e futuro che in qualche misura sempre comporta la fotografia, quella che Barthes chiama la «vertigine del Tempo compresso»,8 nel repertorio di Pasolini fa pensare a una fotografia in particolare che — in sintonia con un temperamento, il suo, sempre sopra le righe e comunque assai distante da quello introverso e malinconico di Barthes — anziché essere nascosta viene da lui viceversa ostesa, esposta in piena luce. È la foto di un Pasolini men che ventenne quella che ci guarda dalla copertina della prima edizione della Nuova gioventù, che Beginning of page[p. 194] esce da Einaudi a maggio del ’75. Quando licenzia quella che resterà la sua ultima raccolta poetica, Pasolini non può sapere (a dispetto di quanto s’è affermato)9 che quello sarebbe stato il suo ultimo anno di vita. Ma tutto lascia pensare che considerasse La nuova gioventù, in ogni caso, la sua ultima raccolta: un congedo dalla poesia in versi che — a cavallo delle mille avventure, letterarie e non, e malgrado ricorrenti crisi di rigetto — sempre era stata la passion predominante, sua croce e delizia. Ricollegandosi alla presa di parola aurorale, le Poesie a Casarsa del 1942 rielaborate dodici anni dopo col titolo La meglio gioventù, il nuovo libro si comporta, col vecchio, come una camera oscura: la sua prima parte riproduce le poesie d’antan, scritte allora in un preziosistico dialetto friulano d’invenzione, mentre la seconda le ripete a specchio rovesciato storpiandole in una palinodia che, scriverà Andrea Zanzotto, «è un ricamminare sopra La meglio gioventù, anche calpestandola».10 Se quello antico era il libro dei vent’anni, animati da una giovinezza malinconica ma fervida, questo nuovo è il libro della mezza età, che quelle illusioni sconcia e irride con «tetro entusiasmo» (questo il titolo, desunto da Dostoevskij, delle ultime poesie aggiunte in coda).

Di questa strategia autodistruttiva fa parte anche la copertina del libro con l’immagine risalente giusto agli anni di Poesie a Casarsa: la fototessera di un Pasolini ventenne in divisa militare, i tratti concentrati e confidenti, con tanto di timbro dell’ufficio che quel documento aveva rilasciato. È un «rimando a un autore che ormai non è più così», ha scritto Marco Antonio Bazzocchi,11 e che presenta quella giovinezza come un reperto ingiallito: quasi un fossile antidiluviano. In una poesia Beginning of page[p. 195] scartata dal libro, così commenta l’immagine Pasolini: «I mi met in posa. Un, doi, tre, via! | Un poeta al vuarda zovin il mond | dal fond di na fotografia. | E da lajù al parla clar e tond».12 Al modo in cui Barthes, al fondo di quella fotografia d’un secolo prima, contempla il destino di morte imminente del giovane congiurato, di fronte a questa immagine è impossibile non pensare alla non meno traumatica morte che toccherà, di lì a pochi mesi, allo stesso Pasolini.

Non sarà però, questa in copertina alla Nuova gioventù, l’ultima sua «azione complessa» (per mutuare l’espressione con la quale si riferiva alle proprie lugubri e allusive messe in scena l’amico Fabio Mauri)13 che coinvolgerà la fotografia: medium al quale Pasolini, sino a questa sua ultima e straordinaria stagione expanded, per la verità aveva guardato in precedenza con circospezione (se non esplicita avversione). Poche settimane prima della morte, com’è noto, si farà riprendere da Dino Pedriali nei suoi due rifugi d’elezione, a Sabaudia e nella Torre di Chia, in una serie di scatti che non farà in tempo a vedere sviluppati ma che, stando al loro autore, aveva concepito quale «integrazione figurale»14 del suo nuovo e magmatico non-romanzo in gestazione, Petrolio: al modo in cui la «poesia visiva» dell’«Iconografia ingiallita», come l’aveva intitolata, giusto in quel vulcanico ’75 aveva posto Beginning of page[p. 196] capo a un altro scartafaccio da Pasolini destinato alla pubblicazione in forma incompiuta e frammentaria, ma che a differenza dell’altro fece in tempo a licenziare per le stampe, cioè La Divina Mimesis.15

Commentando nel 1987 le foto di Pedriali, Leonardo Sciascia evocherà il concetto aristotelico di «entelechia», aggiungendo a mo’ di glossa: «un uomo che muore tragicamente è, in ogni punto della sua vita, un uomo che morirà tragicamente».16 E una giovane studiosa siciliana alla quale si deve uno studio pionieristico quanto prezioso sul rapporto di Pasolini con la fotografia, Corinne Pontillo, ha accostato questa considerazione di Sciascia a un’altra celebre di Walter Benjamin, nella Piccola storia della fotografia, a commento di una foto di Karl Dauthendey: il suo autoritratto con la fidanzata che, qualche anno dopo le nozze, gli toccherà scoprire morta, nella loro camera da letto, con le vene dei polsi tagliate.

Scrive Benjamin che, con tale consapevolezza a posteriori, è impossibile per chi la osservi impedirsi di «cercare nell’immagine […] il luogo invisibile in cui […] si annida ancora oggi il futuro, e con tanta eloquenza che noi, guardandoci indietro, siamo ancora in grado di scoprirlo».17 Non mancano, nell’opera di Benjamin, simili cortocircuiti: per esempio nel celebre saggio di qualche anno dopo sul Narratore, laddove afferma che «la morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare. Dalla morte egli attinge la sua autorità»; propriamente il narratore anzi non può che identificarsi col «morente»: è solo in Beginning of page[p. 197] questa ricapitolazione conclusiva che «la saggezza dell’uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta — che è la materia da cui nascono le storie — assume forma tramandabile».18

In effetti Sciascia confessa però che questa sua idea del «ritratto fotografico come entelechia» gli è venuta leggendo proprio La camera chiara di Barthes, e in particolare giusto le pagine su quella cruciale, invisibile fotografia di sua madre bambina (anche se la definizione filosofica l’aveva desunta, invece, dal Libro degli amici di Hugo von Hofmannsthal, il quale a sua volta citava uno scrittore suo contemporaneo, Moritz Heimann: «Un uomo che muore a trentacinque anni è in ciascun punto della sua vita un uomo che morrà a trentacinque anni. Questo è ciò che Goethe chiamava l’entelechia»).19 Sciascia riconduce questa concezione del tempo, tutto concentrato in un punto nel quale s’incontrano presente, passato e futuro, a Sant’Agostino e a quello che resta sempre il suo riferimento-chiave, Borges; avrebbe anche potuto citare Dante quando nella profezia di Cacciaguida, nel XVII canto del Paradiso, viene evocato il «punto | a cui tutti li tempi sono presenti», o il Montale di Satura («Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri | che paralleli slittano | spesso in senso contrario e raramente | s’intersecano»), che peraltro probabilmente s’ispira a sua volta al Borges più “dantesco”.20Beginning of page[p. 198]

Ma è in un altro autore che s’immagina distante tanto da Sciascia che da Pasolini, cioè lo psicoanalista-sciamano Ernst Bernhard, allievo degenere di Carl Gustav Jung e fra i tardi anni Quaranta e i primi Sessanta carismatico mentore di personaggi come Federico Fellini, Giacomo Debenedetti, Giorgio Manganelli e Amelia Rosselli, che si legge un fulminante paragone fra l’«entelechia», proprio (da lui accostata al concetto induista di karma), e il montaggio cinematografico: «se mi rappresento […] il sorgere dell’entelechia così che il suo corso sia fissato come un film su una pellicola, allora essa, quando si manifesta (il film viene proiettato), è determinata»; mentre prima della proiezione «il corso nel tempo è libertà, per quanto a una considerazione temporale appaia determinato».21 Pasolini non poteva conoscere questo passo nel 1967, quando alla mostra del cinema di Pesaro esponeva le geniali Osservazioni sul piano-sequenza cinque anni dopo raccolte in Empirismo eretico (dato che solo due anni dopo, nel ’69, Adelphi pubblicherà postuma la Mitobiografia che raccoglie anche queste note di Bernhard datate 1943), ma non può non sorprendere la consonanza col celebre passo in cui scrive che «la morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita», «facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo».22

Ma c’è anche un magnifico testo giovanile (che difficilmente a quell’altezza Pasolini poteva conoscere, tradotto da noi solo nel ’73) di Barthes, la biografia critica dedicata a Michelet, nel quale splende un intero capitolo dedicato alla rappresentazione della morte da parte del Beginning of page[p. 199] grande storiografo: dove si legge fra l’altro che «la vita non è intelligibile se non quando la morte la provvede di un termine irremissibile», prendendo dunque il valore di «una rivelazione, quella che svincola, che libera la coerenza ultima di un destino» (col distinguo, però, che «sfortunatamente non tutte le morti godono della virtù rivelatrice che consente l’apparizione dello stile di un’esistenza»).23 Non può non colpire, anche in questo caso, la vicinanza alla futura formula di Empirismo eretico — sulla «morte» che «compie un fulmineo montaggio della nostra vita»24.

Ma è solo nel corso degli anni Sessanta che Pasolini si interessa da vicino al pensiero di Barthes: il quale diventa a quell’altezza addirittura, secondo Antonio Tricomi, il suo «maestro occulto»,25 «prendendo il posto di quel primo padre» che nel decennio precedente era stato Gramsci.26 Rovesciando il punto di vista, c’è da dire che è stato soprattutto dopo il trauma della sua morte che Barthes ha guardato a Pasolini come a uno specchio: deformante magari ma, proprio per questo, in potenza rivelatorio. A parte la problematica, imbarazzata non-stroncatura di Salò del giugno ’76,27 a riassumere bene il senso di quello che Pasolini significava per lui mi pare sia soprattutto il passo della Lezione inaugurale al corso di Semiologia letteraria del Collège de France del gennaio successivo: laddove Barthes rivendica nell’ipostasi del suo nome quello che chiama «l’Irriducibile della letteratura», cioè «l’ostinatezza della sentinella che se ne sta al crocevia di tutti gli altri discorsi, in posizione triviale rispetto alla purezza delle dottrine».28 Pasolini può ben rappresentare quest’attitudine con l’“impurità” del suo scrivere da «intellettuale»,29 cioè l’inclassificabilità di un Beginning of page[p. 200] testo-gesto a suo tempo proprio da Barthes definito di «tipo bastardo»: «figura residuale e differenziale rispetto a quelle […] dello scrittore e dello scrivente, dell’artigiano e del critico della letteratura, dell’artista e dell’intellettuale, del poeta o romanziere e del saggista».30 È sintomatica la convinzione di questo Barthes tardo, per il quale l’irriducibilità e l’ostinatezza dello scrittore non consiste nella sua coerenza più o meno monolitica, bensì al contrario nella sua capacità di «spostarsi»: «trasferirsi dove non si è attesi o, ancora più radicalmente, abiurare da ciò che si è scritto (ma non necessariamente da ciò che si è pensato), allorché il potere gregario lo strumentalizza e lo asservisce».31 In un frammento lampeggiante scritto all’indomani della morte di Barthes, Franco Fortini, che li conosceva bene tutti e due e all’uno e all’altro comminava volentieri l’ambivalenza affettiva suo marchio di fabbrica critico, dirà che proprio questa era l’«illusione» che ingannava entrambi: l’«abiura» non essendo che «la recita di una libertà illusoria».32

Secondo Hervé Joubert-Laurencin,33 al “secondo” Barthes il “secondo” Pasolini deve soprattutto, una volta esauritasi la vena del Beginning of page[p. 201] «piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta»34 (come sprezzante definirà, il sé stesso di allora, il Pasolini della Divina Mimesis), la problematizzazione del nesso fra l’estetico e il politico. In fondo proprio questo mi pare il tratto unificante della «bibliografia», tutta francese, irritualmente acclusa a Salò; ed è questo film, infatti, il punto estremo della tendenza al «senso sospeso» (concetto che Pasolini doveva proprio a Barthes):35 che si spinge sino alla volontà, da lui nella circostanza confessata a Gideon Bachmann, di «non essere intesi, o essere malintesi»: perché quella sua «è una sacra rappresentazione, e perciò profondamente enigmatica. Se potesse essere facilmente compresa, sarebbe semplicistica».36 Sacra rappresentazione definisce dunque Pasolini Salò, mentre fra Progetto e Mistero (intendendo quest’ultimo termine, giusta l’etimologia, a sua volta quale psicomachia d’impianto medievale)37suddivide il cantiere di Petrolio: e sono questi, davvero, i Beginning of page[p. 202] capolavori della sospensione di senso da lui operata nella sua ultima, verticale stagione artistica.38

Felice in ogni caso mi pare la sintesi dello stesso Joubert-Laurencin, secondo il quale quello tra Pasolini e Barthes fu un «incontro mancato riuscito».39 I due in effetti s’incontrarono un paio di volte (si conobbero proprio a Pesaro, alla mostra del cinema del ’65),40 si scrissero qualche lettera,41 ma per lo più si studiarono a distanza, leggendosi e citandosi a vicenda, senza cessare di fraintendersi l’uno con l’altro. Il più o meno intenzionale misreading è fra i dispositivi retorico-concettuali in Pasolini più consueti (e, dal titolo del libro che li raccoglie, direi almeno après coup consapevoli), in particolare nei testi di Empirismo eretico nei quali più spesso ricorre il nome, se non il pensiero, di Barthes;42 ma un vero e proprio misunderstanding significativamente ricorre negli incontri “al limite” ai quali Pasolini più teneva (ricordo il cortocircuito linguistico con Francis Bacon durante le riprese dei Racconti di Canterbury, testimoniato da Laura Betti;43 e quello con Man Ray riferito invece Beginning of page[p. 203] dallo stesso Pasolini, nel testo su Ladies and Gentlemen di Andy Warhol;44 ma in fondo anche il backstage illuminante del celebrato entretien del ’67 con Ezra Pound, ricostruito da una piccola ma accuratissima mostra curata da Giuseppe Garrera al museo MACRO, consente di ricondurlo a questa fattispecie).45

Il primo e direi maggiore punto discriminante, fra i due, è il vettore opposto della rispettiva ricerca sull’immagine. Come già Kafka prima di lui, Barthes rilutta all’immagine in movimento46 per «il prestigio dell’è accaduto», cioè il valore di «reliquia […] secolarizzata» da lui associato all’immagine fissa: la quale «conserva di sacro soltanto ciò che è legato all’enigma di quel che è stato, non è più, eppure si offre alla lettura come segno presente di una cosa morta» (cito da «Il discorso della storia», saggio del ’67 nel quale è già presente, come si vede, quello che sarà il paradigma della Camera chiara).47 Viceversa Pasolini da quella sacralità e da quella frontalità, precisamente, prende le mosse;48 ma proprio con le «Osservazioni sul piano-sequenza» di Beginning of page[p. 204] quello stesso ’67, come s’è visto, collega il «montaggio», che quelle singole immagini mette in sequenza, all’idea della morte. Per entrambi, in ogni caso, nell’immagine riprodotta si colloca il fantasma della morte al futuro. Per Barthes «la Fotografia crea o mortifica a piacimento il mio corpo» trasformandolo in «un soggetto che si sente diventare oggetto: in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte» e «divento veramente spettro».49 E a ben vedere, come chiarisce la conclusione della conferenza di Pesaro data ai Cahiers du cinéma, anche Pasolini intende il montaggio cinematografico come una morte artificiale e sperimentale che segmenta il flusso ininterrotto dell’esistenza, feticcio dei cineasti cultori del piano-sequenza: «il continuo della vita, nel momento della morte — ossia dopo l’operazione di montaggio — perde tutta l’infinità di tempi in cui vivendo ci crogiuoliamo. […] Dopo la morte, tale continuità della vita non c’è più, ma c’è il suo senso. | O essere immortali e inespressi o esprimersi e morire».50 Anche nel flusso del cinema, secondo il primo Barthes, era possibile isolare immagini che, come le pathosformeln warburghiane, concentrano il proprio senso in una «dialettica in situazione di stallo»;51 nel ’62 le aveva chiamate «unità traumatiche»: intanto perché formalmente interrompono la catena sintagmatica della narrazione filmica, e poi perché tematicamente le si vede il più delle volte associate a momenti violenti, luttuosi, carichi comunque di stress emotivo.52 Tornando Beginning of page[p. 205] a Pasolini si pensa a un esperimento isolato, ma straordinariamente significativo, come La rabbia: che è giusto dell’anno successivo.53

Ancora una volta però, oltre ai punti di contatto, sono eloquenti quelli di distacco. Per Pasolini la morte al futuro introdotta dal cinema non è un segno terminale: «il tempo non è quello della vita quando vive, ma della vita dopo la morte», scrive nelle ultime righe della conferenza di Pesaro: «come tale è reale, non è un’illusione e può benissimo essere quello della storia di un film».54 Con l’eccezione proprio di Salò, forse, la morte al futuro è per lui solo una soluzione di continuità: dal momento che — come, esemplarmente, alla conclusione di Teorema — il seme del piangere, cioè la compassione dantesca e caproniana incarnata dalle lacrime che Emilia continua a versare dopo la sua sepoltura, produce vita dopo la morte.55 Per uno come Barthes, una conclusione come questa non poteva non essere suggestiva. Ma per sé, lui che per tempo aveva abiurato dalla propria formazione calvinista,56 non se la poteva concedere. Non credo che il camioncino che il 25 febbraio 1980 lo investì all’uscita del Collège de France, e che un mese dopo lo condurrà alla morte, Barthes se lo fosse andato a cercare con una «medesima volontà pasoliniana», come ha scritto una volta Denis Roche.57 Mi Beginning of page[p. 206] pare di poter dire, però, che il lutto che da due anni lo avvolgeva avesse in quel modo trovato, per dirla alla maniera di Pasolini, un suo modo di esprimersi. Nella Camera chiara, in ogni caso, dice esplicitamente Barthes che, «morta lei», sua madre cioè, «non gli restava altro che aspettare la sua morte totale, indialettica»:58 in quella «prima morte» era già «inscritta la sua propria morte; fra le due morti, più niente, solo un’attesa».59

Nella nota del Journal du deuil che più strettamente dialoga con La camera chiara (quello cioè che, in queste sue note private, familiarmente chiama «il libro Foto-Mam»), Barthes si descrive mentre contempla la famosa immagine sottratta: «dopo aver ricevuto la foto che avevo fatto stampare di mam. ragazzina nel giardino d’inverno di Chennevières, provo a mettermela davanti, sul mio tavolo di lavoro. Ma è troppo, mi è intollerabile, mi dà troppa pena. Questa immagine entra in conflitto con tutti i piccoli, vani combattimenti, senza alcuna nobiltà, della mia vita. L’immagine è davvero una misura, un giudice».60 Quello del lutto, oltre che un «lavoro» come aveva spiegato Freud,61 è dunque un conflittola lotta del lutto diciamo: tra la vita, Beginning of page[p. 207] che vuole andare avanti nella sua microconflittuale banalità, e la fissità della morte, la sua «piattezza»62 annichilente: alla quale il piacere perverso dell’immobilità, la voluttà del lutto diciamo, vorrebbe invece fissarla una volta per tutte. «Dicono che, attraverso il suo progressivo lavoro, il lutto cancelli lentamente il dolore; io non potevo, non posso crederlo; per me il Tempo elimina l’emozione della perdita (non piango), e basta. Per il resto, tutto è rimasto immobile»,63 decreta La camera chiara.

Proprio in quei giorni di primavera del ’78 cita un’ultima volta Pasolini, Barthes, nelle lezioni al Collège sul Neutro: insistendo in particolare sul poemetto «Una disperata vitalità», tradotto dalla rivista Action poétique nel numero di ottobre dell’anno precedente64 (cioè proprio mentre moriva sua madre). E traduce l’espressione che intitola il testo (da Pasolini desunta, come sappiamo, da una definizione data dal maestro Longhi dei suoi amati pittori manieristi)65 come «odio della morte».66 Esattamente negli stessi giorni, nelle note del Journal du deuil, annota Barthes che il «“Lavoro” in senso analitico», cioè appunto freudiano, può essere completato col «“Lavoro” reale — di scrittura»:67 nella fattispecie il «libro sulla Foto», appunto, che gli consente «di integrare la sua tristezza a una scrittura».68 Forse allora il nesso, il «noema» di fotografia e morte, che La camera chiara istituisce, si spiega anche così: la soluzione (testuale), l’esprimersi che la pubblicazione del libro attesta, è davvero il giudice — il Giorno del Giudizio — per chi lo ha scritto. Sottratta da quel montaggio l’immagine intollerabile che lo governa, finalmente, Barthes può morire.

Notes

  1. Roland Barthes, La camera chiara [1980], trad. Renzo Guidieri (Torino: Einaudi, 1980), p. 78.
  2. Ibid., p. 96. Per errore Barthes chiama «Payne», anziché Powell, il giovane fotografato da Gardner. Il riferimento a Donald W. Winnicott è al suo saggio «Fear of Breakdown: A Clinical Example», pubblicato nel 1974 (ma con data «1963») sulla International Review of Psycho-Analysis, 61 (1980), pp. 351–57 (trad. Luca Rosi e Manuela Trinci, Il piccolo Hans, 63 (autunno 1989), pp. 123–39). Un’anticipazione notevole di questa celebre formulazione barthesiana (anche se dal vettore affettivo poco meno che opposto) si trova in Sigfried Kracauer, «La fotografia» [1927], in La massa come ornamento [1963], trad. Maria Giovanna Amirante Pappalardo e Francesco Maione, presentazione di Remo Bodei (Napoli: Prismi, 1982), pp. 120–26: «Il costume della nonna che appare in fotografia sembra un residuo di cui ci si è liberati e che, tuttavia, resta lì fermo con le sue imbarazzanti pretese. Esso, come un cadavere, null’altro è che la somma degli elementi particolari che lo compongono, eppure reclama ancora la vita per sé […]. Lo spettro è comico e, ad un tempo, terrificante. Una fotografia invecchiata non provoca soltanto il riso: essa rappresenta il passato. […] La nonna ha davvero vissuto […]. Oggi la stessa immagine vaga nel presente come il fantasma di una castellana. […] Per la prima volta nella storia la fotografia porta alla luce nella sua interezza l’involucro naturale, per la prima volta attraverso di essa il mondo dei morti si manifesta nella sua indipendenza dall’uomo» (pp. 120–21 e 26).
  3. Emanuele Trevi, «Edipo imbranato», prefazione a Hervé Guibert, L’immagine fantasma [1981], trad. Matteo Martelli (Roma: Contrasto, 2021), pp. 5–15 (pp. 9–10).
  4. Cfr. Roland Barthes, Dove lei non è. Diario di lutto [testo del 1977–1979 pubblicato nel 2009], a cura di Nathalie Léger, trad. Valerio Magrelli (Torino: Einaudi, 2010).
  5. Barthes, La camera chiara, p. 11.
  6. Ibid., p. 10.
  7. Pier Paolo Pasolini, «Le mie proposte su scuola e Tv» [1975], in Pasolini, Lettere luterane (Torino: Einaudi, 1976); ora in Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude (Milano: Mondadori, 1999), pp. 693–99 (p. 695). In questo che è il penultimo suo articolo uscito sul «Corriere della Sera» prima della morte, il 29 ottobre 1975 (col titolo «E se abolissimo davvero la scuola media?»), Pasolini fra l’altro polemizza con Alberto Moravia rivendicando appunto tale «patente», «ottenuta attraverso il suo modo di esistenza, che gli ha offerto l’occasione di guardare in faccia centinaia di volte per centinaia di sere i protagonisti delle centinaia di episodi che prefigurano casi estremi e tragici come quelli del Circeo e di Cinecittà» (a Cinecittà, quel mese, si era prodotto un nuovo caso di violenza urbana — dalle conseguenze meno tragiche di quello del Circeo — di cui, a differenza di quello del mese precedente, si erano resi responsabili dei ragazzi del proletariato suburbano). Il giorno dopo, 30 ottobre, esce (col titolo «Delitto in Europa») la più nota «Lettera luterana a Italo Calvino», ancora sui fatti del Circeo.
  8. Barthes, La camera chiara, p. 96.
  9. Alludo alle ripetute pubblicazioni in tal senso di uno degli amici più cari di Pasolini, il pittore Giuseppe Zigaina, susseguitesi a partire dal 1987 (Pasolini e la morte. Mito, alchimia e semantica del «nulla lucente», edito da Marsilio; una sintesi si legge in traduzione inglese, col titolo «Pasolini and Death: a Purely Intellectual Thriller», in PPP: Pier Paolo Pasolini and Death, a cura di Bernhard Schwenk e Michael Semff (München: Hatje Canz, 2005), pp. 25–40). Ma quello che Zigaina ha tentato di sistematizzare in un minuziosissimo racconto indiziario era un luogo comune che circolò da subito dopo la morte di Pasolini, e se è per questo circola tuttora.
  10. Andrea Zanzotto, «Pasolini poeta» [1980], in Zanzotto, Aure e disincanti nel Novecento letterario (Milano: Mondadori, 1994); ora in Zanzotto, Scritti sulla letteratura, a cura di Gian Mario Villalta, 2 voll. (Milano: Mondadori, 2001), ii, pp. 153–60 (p. 159).
  11. Marco Antonio Bazzocchi, Esposizioni. Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità (Bologna: il Mulino, 2017), p. 132. Si veda anche il ragionamento più ampio, dello stesso Bazzocchi, in «Sopravvivere per ingiallire. Nota sul colore dell’ultimo Pasolini», in Vedere, Pasolini, a cura di Andrea Cortellessa e Silvia De Laude (Dueville: Ronzani, 2022), pp. 307–25.
  12. Sono versi verosimilmente pensati per La nuova gioventù, ma rimasti infine fuori dall’ordinamento del 1975, e pubblicati nell’Appendice a «La nuova gioventù», in Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, con un saggio di Fernando Bandini, 2 voll. (Milano: Mondadori, 2003), ii, p. 523. Se ne veda il commento in Corinne Pontillo, Di luce e di morte. Pier Paolo Pasolini e la fotografia, prefazione di Marco Antonio Bazzocchi (Lentini: Duetredue, 2015), pp. 48–49.
  13. La definizione di «azione complessa» si trova nel foglio di sala che accompagnava la messa in scena di Che cosa è il fascismo (alle cui prove — negli stabilimenti cinematografici Palatini di Roma dove si tenne l’«azione» il 2 aprile 1971 — assistette proprio Pasolini, come si vede in una fotografia di Elisabetta Catalano che a sua volta, più avanti, verrà da Mauri trasformata in una propria opera installativa): Fabio Mauri, Scritti in mostra. L’avanguardia come zona 1958–2008, a cura di Francesca Alfano Miglietti (Milano: il Saggiatore, 2008), p. 21.
  14. L’espressione viene usata da Pasolini a partire dal 1958 (due anni dopo l’uscita da Einaudi dell’edizione italiana di Mimesis di Erich Auerbach dalla quale è desunta): cfr. Guido Santato, « Pasolini e Auerbach: tra “mescolanza degli stili” e “realismo creaturale” », in Santato, Pasolini oggi. Studi e letture (Rome : Carocci, 2024), pp. 53–68 (pp. 59–60). Ma, come spesso in Pasolini, muta di significato e di funzione nei suoi impieghi ulteriori. Rinvio al mio «Romanzi per figure», in Vedere, Pasolini, a cura di Cortellessa e De Laude, pp. 327–63 (pp. 338 sgg.).
  15. Cfr. Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis [1975], in Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, 2 voll. (Milano: Mondadori, 1998), ii: 1961–1975, pp. 1071–58 (p. 1071). Il titolo della riscrittura interrotta dell’Inferno dantesco, iniziata nel ’63 ma licenziata solo alla vigilia della morte, aggiungendovi le fotografie dell’«Iconografia ingiallita», è ovviamente un omaggio all’opera critica di Auerbach; ma tanto la definizione di «poesia visiva» che il meccanismo iconopoetico adottato denotano piuttosto un’angoscia dell’influenza da parte della detestata Neoavanguardia (rinvio ad Andrea Cortellessa, «L’incubo dei Novissimi», il verri, 83 (ottobre 2023), pp. 89–96).
  16. Leonardo Sciascia, «Il ritratto fotografico come entelechia» [1987], in Sciascia, Fatti diversi di storia letteraria e civile (Palermo: Sellerio, 1989); ora in Opere, a cura di Paolo Squillacioti, 2 voll. (Milano: Adelphi, 2019), ii.2: Inquisizioni. Memorie. Saggi; Saggi letterari, storici, civili (2019), p. 1141. Il testo di Sciascia si legge anche in Sciascia, Sulla fotografia, a cura di Diego Mormorio (Milano-Udine: Mimesis, 2020), pp. 79–88.
  17. Walter Benjamin, «Piccola storia della fotografia» [1931], in Benjamin, Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini (Torino: Einaudi, 2012), pp. 225–44 (pp. 229–30), citato in Corinne Pontillo, Di luce e di morte. Pier Paolo Pasolini e la fotografia, p. 178.
  18. Walter Benjamin, «Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov» [1936], in Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi (Torino: Einaudi, 1963), pp. 247–74 (pp. 258–59). Un altro esempio di quest’uso “profetico” delle immagini fotografiche del passato lo ricorda Susan Sontag (in Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società [1977], trad. Ettore Capriolo (Torino: Einaudi, 1978), p. 144) in un passo del romanzo del 1935, Invito a una decapitazione di Vladimir Nabokov, nel quale al prigioniero Cincinnatus viene mostrato il «fotoroscopo» della bambina Emmie ritratta appena nata e poi, mediante foto-ritocchi e foto-montaggi con l’immagine di sua madre, quarantenne sul letto di morte: «una banale imitazione del lavorio del tempo» (cito dall’edizione tradotta da Margherita Crepax (Milano: Adelphi, 2004), p. 171).
  19. Sciascia, «Il ritratto fotografico come entelechia», p. 1141 (la citazione da Hugo von Hofmannsthal, Il libro degli amici [1922], trad. Gabriella Bemporad (Milano: Adelphi, 1980), p. 19; Goethe aveva fatto suo il concetto aristotelico per esempio nella Metamorfosi delle piante del 1790, e ne discute più volte nelle Conversazioni con Johann Peter Eckermann, pubblicate postume fra il 1836 e il 1848).
  20. Eugenio Montale, «Tempo e tempi», in Montale, Satura (Milano: Mondadori, 1971); ora in Montale, L’opera in versi, a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini (Torino: Einaudi, 1980), p. 342. Il rinvio alla recensione di Montale alle Altre inquisizioni di Borges, di cinque anni precedente a questo suo componimento («Ipotesi di Borges» [1963], in Eugenio Montale, Il secondo mestiere. Prose 1929–1979, a cura di Giorgio Zampa, 2 voll. (Milano: Mondadori, 1996), ii, pp. 2605–07 (p. 2606)) si deve a Riccardo Castellana nell’edizione a sua cura di Satura, con saggi di Romano Luperini e Franco Fortini (Milano: Mondadori, 2009), pp. 148–49. Per il background (anche) dantesco di questa concezione di Jorge Luis Borges si veda il suo saggio «L’ultimo sorriso di Beatrice», in Borges, Nove saggi danteschi [inedito degli anni Quaranta pubblicato nel 1982], a cura di Tommaso Scarano (Milano: Adelphi, 2001), pp. 97–104.
  21. Ernst Bernhard, «Primi pensieri sistematici sull’entelechia» [testo inedito del 1943], in Bernhard, Mitobiografia, a cura di Hélène Erba-Tissot (Milano: Adelphi, 1969), pp. 20–33 (p. 27). Come annota la curatrice (ibid., p. 20), Bernhard desume il concetto da Aristotele, con la mediazione del suo commentatore Hans Driesch.
  22. Pier Paolo Pasolini, «Osservazioni sul piano-sequenza» [1968], in Pasolini, Empirismo eretico (Milano: Garzanti, 1972); ora in Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, 2 voll. (Milano: Mondadori, 1999), i, pp. 1555–61 (p. 1560).
  23. Roland Barthes, Michelet [1954], trad. Glauco Viazzi (Napoli: Guida, 1973), p. 60 e p. 62.
  24. Pasolini, «Osservazioni sul piano-sequenza», p. 1569.
  25. Antonio Tricomi, Pasolini: gesto e maniera (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2005), p. 91.
  26. Ibid., p. 104.
  27. Cfr. Roland Barthes, «Sade – Pasolini», Le Monde (16 giugno 1976); ora in Barthes, Sul cinema, a cura di Sergio Toffetti (Genova: il melangolo, 1994), pp. 158–60.
  28. Roland Barthes, «Lezione» [1978], trad. Renzo Guidieri, in Sade, Fourier, Loyola seguito da Lezione, introduzione di Gianfranco Marrone (Torino: Einaudi, 2001), pp. 173–95 (p. 185).
  29. Secondo la celebre definizione pasoliniana: «Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero» («Il romanzo delle stragi» [1974], in Pasolini, Scritti corsari (Milano: Garzanti, 1975); ora in Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, pp. 362–67 (p. 363)). Per la ridefinizione pasoliniana del concetto di “intellettuale” rinvio ad Andrea Cortellessa, «Intellettuali, Anni Zero», in Giancarlo Alfano et al., Dove siamo? Nuove posizioni della critica letteraria (Palermo: :duepunti, 2011), pp. 15–40 (pp. 18–19 e pp. 31–33).
  30. Antonio Tricomi, Pasolini: gesto e maniera, p. 88. Il riferimento è a Roland Barthes, «Scrittori e scriventi» [1960], in Barthes, Saggi critici, 4 voll. (Torino: Einaudi, 1966–88), i, trad. Lidia Lonzi (1966), pp. 120–28. Per l’influsso esercitato da Barthes sulla cultura letteraria italiana, nel senso di una marcata “saggistizzazione” degli altri generi della prosa, rinvio al mio Libri segreti. Autori-critici nel Novecento italiano (Firenze: Le Lettere, 2008), pp. 25–30.
  31. Barthes, «Lezione», p. 185. Il riferimento è a Pier Paolo Pasolini, «Abiura dalla “Trilogia della vita”» [1975], in Pasolini, Lettere luterane, ora in Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, pp. 599–603.
  32. Franco Fortini, «Lezione di crepuscolo» [con data «giugno 1981»], in Fortini, Insistenze. Cinquanta scritti 1976–1984 (Milano: Garzanti, 1985), pp. 256–58; col titolo «E Barthes», in Attraverso Pasolini (Torino: Einaudi, 1993), a cura di Vittorio Celotto e Bernardo De Luca (Macerata: Quodlibet, 2022), p. 174.
  33. Cfr. Hervé Joubert-Laurencin, «Pasolini-Barthes: engagement et suspension de sens», Studi Pasoliniani, 1 (2007), pp. 55–67.
  34. Pasolini, La Divina Mimesis, p. 1084.
  35. L’espressione si legge in Pier Paolo Pasolini, «La fine dell’avanguardia» [1966], in Pasolini Empirismo eretico; ora in Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, i, pp. 1400–28 (p. 1425) (e deriva da un’intervista resa da Barthes a Michel Delahaye e Jacques Rivette sul numero 147 dei Cahiers du Cinéma, nel 1963, ma letta da Pasolini in traduzione, prima che uscisse col titolo «Cinema metaforico e cinema metonimico» alle pp. 9–14 del primo numero della rivista Cinema e film, nel dicembre di quel 1966). Al di là del merito della discussione (sul quale rinvio a Davide Luglio, «Appunti allo specchio», in Album PPP. Appunti per una galleria da farsi, a cura di Marco A. Bazzocchi, Stefania Rimini e Maria Rizzarelli, numero monografico di Arabeschi, 6 (luglio-dicembre 2015), pp. 37–40), rimarchevole è quest’enfasi di Pasolini: «“Sospendere il senso”: ecco una stupenda epigrafe per quella che potrebbe essere una nuova descrizione dell’impegno, del mandato dello scrittore» («La fine dell’avanguardia», pp. 1422423; la frase da lui commentata di Barthes suonava così, nella traduzione italiana: «Il “senso” è una tale fatalità per l’uomo, che l’arte, in quanto libertà, sembra adoperarsi, soprattutto oggi, non a fare del senso ma, al contrario, a sospenderlo; non a costruire dei sensi ma a non riempirli esattamente»). Un’eco di questa discussione figura pure, nel ’68, nel II episodio del dramma Calderòn (non a caso quello, fra i suoi, che più si spinge in questa direzione), in un monologo di Sigismondo: «Ne vien fuori questo discorso amaro | e spiritoso, vagamente brechtiano. Il canone | è sospeso, però! Secondo la giusta interpretazione | del mio amico Barthes (conosciuto in Giappone | mentre ammirava il comportamento rituale, | sebbene quotidiano, di alcuni studenti)» (Pier Paolo Pasolini, Calderòn (Milano: Garzanti, 1973); ora in Pasolini, Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, con due interviste a Luca Ronconi e Stanislas Nordey (Milano: Mondadori, 2001), pp. 659–758 (p. 672)).
  36. Gideon Bachmann, «Pasolini and the Marquis de Sade», Sight and Sound, 45.1 (inverno 1975–1976), pp. 50–54 (p. 5) (traduzione mia).
  37. Introduce l’antinomia, metariflessivamente, il testo stesso nell’«appunto 43. Lampi sul ‘linkskommunismus’»: Pier Paolo Pasolini, Petrolio [testo del 1973–75 pubblicato postumo nel 1992], a cura di Maria Careri e Walter Siti (Milano: Garzanti, 2022), pp. 227–28 (dove si aggiunge che «le due parole “Mistero e Progetto” erano anche, provvisoriamente, il sottotitolo del romanzo»).
  38. Propone un confronto fra le vocazioni al “romanzo” dell’ultimo Pasolini e dell’ultimo Barthes (per come è dato indurre dai corsi tenuti al Collège de France nel 1978–1979 e nel 1979–1980, pubblicati a cura di Nathalie Léger nel 2003; La preparazione del romanzo, trad. Emiliana Galiani e Julia Ponzio (Milano-Udine: Mimesis, 2010)) Viola Brisolin, Power and Subjectivity in the Late Work of Roland Barthes and Pier Paolo Pasolini (Bern: Peter Lang, 2011) (una sintesi, col titolo «Preparazione e progetto: esplorazioni romanzesche in Barthes e Pasolini», in Pasolini e la Francia, sezione monografica a cura di Ubaldo Fadini, Iride, 3 (2018), pp. 561–74).
  39. Joubert-Laurencin, «Pasolini-Barthes: engagement et suspension de sens», p. 55.
  40. Cfr. Antonella Giordano e Nico Naldini, Cronologia, in Pier Paolo Pasolini, Le lettere, a cura di Giordano e Naldini (Milano: Garzanti, 2021), p. 212.
  41. Due lettere di Barthes a Pasolini, del 15 marzo 1962 e dell’8 aprile 1966, sono citate da Hervé Joubert-Laurencin, «Pasolini-Barthes: engagement et suspension de sens», p. 58. La seconda (che annuncia un nuovo incontro all’edizione di quell’anno del festival di Pesaro) è riportata in Nico Naldini, Pasolini, una vita (Torino: Einaudi, 1989), p. 304.
  42. Questo livello del confronto è variamente analizzato nei contributi di Davide Luglio, «Le cose e le immagini. Dalla transustanziazione del segno alla polisemia della realtà» e di Corinne Pontillo, «Pier Paolo Pasolini e Roland Barthes. Tracce fotografiche di un dialogo mancato», in Vedere, Pasolini, a cura di Cortellessa e De Laude, pp. 209–33 e 235–50.
  43. Cfr. Massimo Fusillo, «Spettri di Pasolini… (su Teorema)» e Stefano Casi, «Gli autoritratti “fratelli” di Pasolini e Francis Bacon», in Album PPP. Appunti per una galleria da farsi, a cura di Bazzocchi, Rimini e Rizzarelli, pp. 11–13 e 26–28 <http://www.arabeschi.it/collection/album-ppp-appunti-per-una-galleria-da-farsi/> [consultato il 19 giugno 2025].
  44. Cfr. Pier Paolo Pasolini, «Ladies and gentlemen» [testo del 1975 pubblicato postumo nel 1976], in Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, ii, pp. 2710–14; Alessandro Del Puppo, Pasolini Warhol 1975 (Milano-Udine: Mimesis, 2019).
  45. Consentono di leggere in modo molto diverso dalla vulgata il celebre episodio televisivo del ’67, andato in onda l’anno seguente, i documenti esposti alla mostra A Pact. Pier Paolo Pasolini ed Ezra Pound, a cura di Giuseppe Garrera (Roma: MACRO, 24 novembre 2022–19 febbraio 2023). Una trascrizione dell’incontro in Vanni Ronsisvalle (il giornalista che l’aveva ideato e organizzato), «Pasolini e Pound», Galleria, 35.1–4 (1985), pp. 168–74.
  46. «Forse che al cinema io aggiungo qualcosa all’immagine? – Non credo; non ne ho il tempo: davanti allo schermo non sono libero di chiudere gli occhi, perché altrimenti, riaprendoli, non ritroverei più la stessa immagine; io sono costretto a una voracità continua; un gran numero di altre qualità, ma nessuna pensosità; di qui, il mio interesse per il fotogramma»: Barthes, La camera chiara, p. 56 (cfr. anche ibid., p. 90). All’amico Janouch aveva detto Kafka di «non sopportare il cinema»: «la rapidità dei movimenti e la successione delle immagini costringono a una visione superficiale. Non è lo sguardo che s’impossessa delle immagini, sono loro a impossessarsi dello sguardo»: Gustav Janouch, Conversazioni con Kafka [1951–1968], trad. Maria Grazia Galli (Parma: Guanda, 1991), p. 186.
  47. Roland Barthes, «Il discorso della storia» [1967], in Barthes, Saggi critici, iv: Il brusio della lingua [1984] (1988), trad. Bruno Bellotto, pp. 137–49 (pp. 148–49). Ma si veda già Roland Barthes, «Retorica dell’immagine» [1964], trad. Giovanni Bottiroli, in Barthes Saggi critici, iii: L’ovvio e l’ottuso [1982] (1985), pp. 22–41, in particolare a p. 34.
  48. È il primo precetto di quella che Pasolini chiama «sacralità tecnica»: «Sacralità: frontalità. E quindi religione»: Pier Paolo Pasolini, «Confessioni tecniche» [1966], in Pasolini, Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli con scritti di Bernardo Bertolucci, Mario Martone e Vincenzo Cerami, 2 voll. (Milano: Mondadori, 2001), ii, pp. 2768–81 (p. 2768).
  49. Barthes, La camera chiara, p. 12 e p. 15.
  50. Pier Paolo Pasolini, «Essere è naturale?» [1968], in Empirismo eretico; ora in Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, i, pp. 1562–69 (pp. 1568–69).
  51. Così preferisce tradurre la formula di Benjamin, «Dialektik im Stillstand», Giorgio Agamben (in Ninfe (Torino: Bollati Boringhieri, 2007), p. 28; alle pp. 23–26 dello stesso saggio è svolto il parallelo fra la «sopravvivenza» delle Pathosformeln e la «persistenza dell’immagine retinica» alla base del “falso movimento” chiamato cinema; il riferimento è a Walter Benjamin, I «passages» di Parigi [testo del 1927–1940 pubblicato postumo nel 1982], trad. Giuseppe Russo, in Opere complete, a cura di Rolf Tiedemann, edizione italiana a cura di Enrico Ganni, 9 voll. (Torino: Einaudi, 2000–2008), ix (2000), p. 516, dove suona «dialettica nell’immobilità»).
  52. La riflessione sul cinema di Roland Barthes è a tutti gli effetti incompiuta. Il saggio uscito nel 1962 nella Revue Internationale de Filmologie su Le «unità traumatiche» nel cinema, principi di ricerca (in Roland Barthes, Sul cinema. Significazione e «unità traumatiche», a cura di Liborio Termine e con un’introduzione di Francesco Casetti (Firenze: Vallecchi, 1995), pp. 41–72), un tentativo di lettura saussuriana dei princìpi del linguaggio cinematografico, segna un’impasse (come dimostra la dichiarazione dell’anno dopo nella già ricordata intervista ai Cahiers du cinéma, Cinema metaforico e cinema metonimico: «Non sono riuscito a integrare il cinema nella sfera del linguaggio»). Nei fatti, come dimostra la lettura ejzenstejniana del 1970 («Il terzo senso. Note di ricerca su alcuni fotogrammi di Ejzenstejn», trad. Giovanni Bottiroli, in Barthes, Saggi critici, iii : L’ovvio e l’ottuso (1985), pp. 42–61), Barthes finiva per “leggere” i singoli fotogrammi, ma non il film.
  53. Cfr. Flaminia Albertini, «“La rabbia” di Pasolini. Un film scritto, una poetica cinematografica» e Roberto Chiesi, «Le ombre immobili. La fotografia nel cinema di Pasolini», in Vedere, Pasolini, a cura di Cortellessa e De Laude, pp. 143–66 e 167–83.
  54. Pasolini, «Essere è naturale?», p. 1569.
  55. Rinvio al mio intervento «Morte e Trasfigurazione», al convegno Pasolini antesignano (Roma, Università «La Sapienza», Università Tor Vergata, Università Roma Tre, 18–20 gennaio 2023).
  56. Per la precisione era protestante sua madre Henriette mentre era cattolico il padre Louis, ufficiale di marina morto in battaglia nel Mare del Nord, nel 1916 (quando il figlio aveva un anno). Un lettore acuto come Michele Cometa (Mistici senza Dio. Teoria letteraria ed esperienza religiosa nel Novecento (Palermo: Edizioni di passaggio, 2012), pp. 197–238) nota una quantità di “sopravvivenze” della tradizione mistica, in specie tedesca e fiamminga, anzitutto nel lessico teorico di Barthes.
  57. Denis Roche, «Lettre à Roland Barthes sur la disparition des lucioles», in Roche, La Disparition des lucioles. Réflexions sur l’acte photographique (Paris: Éditions de l’Étoile, 1982), pp. 153–66 (p. 157), citato in Daniele Carluccio, «Barthes et Pasolini, détour et frontalité», Po&sie, 165–66 (2018), p. 175–88 (p. 175). Per la ricostruzione dell’ultimo atto della biografia mi rivolgo a Tiphaine Samoyault, Roland Barthes (Paris: Seuil, 2015), pp. 13–27: dopo aver partecipato a un pranzo con Jack Lang e François Mitterrand in previsione della sua campagna elettorale, Barthes si stava recando al Collège de France non per fare lezione, ma per discutere l’attrezzatura tecnica necessaria al suo prossimo corso, che avrebbe voluto destinare a Proust e alla fotografia (ibid., p. 13). Le ferite dovute all’incidente non erano mortali e in effetti Barthes morirà in conseguenza d’un’infezione, contratta alla Salpêtrière, che fece precipitare l’insufficienza polmonare congenita. Ma per molti conoscenti, «l’effroi devant la brutalité de l’événement le dispute à un sentiment de nécessité. Comme si, depuis la mort de sa mère, il s’était laissé doucement glisser» (ibid., p. 16). Un amico, Georges Raillard, gli aveva chiesto l’argomento del suo prossimo corso e lui aveva risposto «Je montrerai des photos de ma mère, et je me tairai» (ibid., p. 24). Un altro, Jacques Derrida, ha descritto la sua dopo la morte della madre come «una vita che già assomigliava alla morte», «una morte che veniva mimata in anticipo», concludendo che «da vivo Roland Barthes si è scritto la sua morte da solo» («Le morti di Roland Barthes» [1981], in Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro [1997], trad. Rodolfo Balzarotti, 2 voll. (Milano: Jaca Book, 2008–2009), i (2008), pp. 307–42 (p. 321 e p. 326)).
  58. Barthes, La camera chiara, p. 74.
  59. Ibid., p. 93.
  60. Barthes, Dove lei non è, p. 222 (29 dicembre 1978).
  61. Cfr. Sigmund Freud, «Lutto e melanconia» [1915], in Freud, Opere, edizione diretta da Cesare L. Musatti, 11 voll. (Torino: Boringhieri, 1967–1979), viii (1976), pp. 102–18.
  62. Barthes, La camera chiara, p. 93.
  63. Ibid., pp. 76–77.
  64. Il riferimento è a margine degli appunti, a p. 169 di Roland Barthes, Il Neutro. Corso al Collège de France 1977–1978 [2002], a cura di Thomas Clerc, trad. Augusto Ponzio (Milano-Udine: Mimesis, 2022) (18 marzo 1978).
  65. L’espressione è prelevata com’è noto dal saggio longhiano «Ricordo dei manieristi» [1953], in Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi, a cura di Gianfranco Contini (Milano: Mondadori, 1973), pp. 727–34 (p. 733). Ma Pasolini l’aveva trovata citata, con ogni probabilità, nel volume che gli aveva prestato Attilio Bertolucci per preparare i tableaux vivants della Ricotta, cioè Giuliano Briganti, La maniera italiana (Roma: Editori Riuniti, 1961), p. 9.
  66. Barthes, Dove lei non è, p. 91 (18 febbraio 1978).
  67. Ibid., p. 134 (31 maggio 1978).
  68. Ibid., p. 106 (23 marzo 1978).

Références

Bibliographie

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  6. « Lezione » [1978], trad. Renzo Guidieri, dans Sade, Fourier, Loyola seguito da Lezione (Turin : Einaudi, 2001), p. 173–195
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  8. Il Neutro. Corso al Collège de France 1977–1978 [2002], éd. Thomas Clerc, trad. Augusto Ponzio (Milan-Udine : Mimesis, 2022)
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  10. « Retorica dell’immagine » [1964], trad. Giovanni Bottiroli, dans Barthes Saggi critici, iii : L’ovvio e l’ottuso (1985), p. 22–41
  11. « Sade – Pasolini » [1976], dans Barthes, Sul cinema, éd. Sergio Toffetti (Gênes : il melangolo, 1994), p. 158–60
  12. Saggi critici, 4 vol. (Turin : Einaudi, 1966–88)
  13. « Scrittori e scriventi » [1960], dans Barthes, Saggi critici, i, trad. Lidia Lonzi (1966), p. 120–28
  14. Sul cinema. Significazione e « unità traumatiche », éd. Liborio Termine (Florence : Vallecchi, 1995)
  15. « Il terzo senso. Note di ricerca su alcuni fotogrammi di Ejzenstejn », trad. Giovanni Bottiroli, dans Barthes Saggi critici, iii : L’ovvio e l’ottuso (1985), p. 42–61
  16. Bazzocchi, Marco Antonio, Esposizioni. Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità (Bologne : il Mulino, 2017)
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Filmographie

  1. Pasolini, Pier Paolo, La rabbia (La Rage) (1963)
  2. Salò o le centoventi giornate di Sodoma (Salò ou les 120 journées de Sodome) (1975)
  3. Teorema (Théorème) (1968)