
Il saggio interroga il grande tema pasoliniano del rapporto tra «mondo della ragione» e «antico mondo magico» alla luce di due opere: L’aigle (1965) e gli Appunti per un’Orestiade africana (1969). Tra le due esiste un rapporto di complementarietà rovesciata. La prima è impostata su una tesi anti-eurocentrica corrispondente all’esaltazione del «pensiero selvaggio». La seconda invece parte da un’ipotesi propriamente eurocentrica: interpreta la situazione dell’Africa in analogia all’Orestea, proponendo la sintesi tra mondo ancestrale e modernità. La contraddizione tra le due opere è apparente. Gli Appunti in realtà seguono un’impostazione logico-antilogica che ne delegittima l’ipotesi. Pur in assenza di conclusione, l’opera prelude al periodo in cui Pasolini esplicitamente ritratta il modello razionalista.
Mots-Clés: razionalismo; universalismo; anti-progressismo; pensée sauvage; charter myth; figure logico-antilogiche; auto-manierismo
Il tuo rapporto con me è scandaloso, scandaloso! Il rapporto tra un uomo civilizzato e un essere preistorico deve essere di dare e avere! […] Mettiti in un rapporto dialettico con me!
1. Nell’inverno del 1965, durante una delle loro conversazioni, Gideon Bachmann chiede a Pasolini di estendere le sue riflessioni, in particolare, sulla questione meridionale a un quadro storico più ampio di cui ritiene la situazione italiana sia un «simbolo».1 La domanda sembra entrare nel vivo di una preoccupazione culturale che per Pasolini, in quegli anni, anche in seguito all’accumularsi di esperienze di viaggio in India e in Africa, pare aver assunto un’importanza sempre maggiore: i rapporti (di forza) tra Occidente e Terzo mondo ossia, metonimicamente, l’opposizione tra il progresso e il regresso, il logos e la corporeità, la maturità e l’adolescenza, l’io e l’altro. Per dare concretezza alle sue idee Pasolini sceglie di portare l’attenzione a un esempio con cui di recente, come vedremo, ha avuto modo di entrare personalmente Beginning of page[p. 60] in contatto: la Francia. Si tratta di un tema già sfiorato diffusamente in ambito soprattutto lirico,2 ma che nel frattempo ha assunto un’importanza tale da imporre un progetto a più ampia scala: non più soltanto poesie ma — e il termine rinvia a un noto disegno d’opera sul Terzo mondo — un «poema»:3
Prenda per esempio il rapporto della Francia [con il] Terzo mondo in generale: è un caso degno di un poema. È una nazione che è arrivata al massimo della razionalizzazione del mondo. Per la Francia, la parola “libertà” corrisponde alla parola “razionalità”. Essa ha razionalizzato tutto: ha razionalizzato anche l’irrazionale. Per esempio Godard è profondamente irrazionale, ma la Francia lo ha razionalizzato e lo ha messo al suo posto. E così tutto l’irrazionalismo francese, che non ha mai avuto soluzione di continuità […] E quindi anche gli elementi irrazionalistici della cultura hanno il loro posto ben preciso, sono razionalizzati.4
Di primo acchito si direbbe che il discorso di Pasolini proceda nel solco di una narrazione diffusa e, per così dire, classica: la Francia vi compare come la patria per antonomasia della razionalità, la sua storia come storia di una progressiva conquista razionale. Della stessa narrazione comunque Pasolini si accinge quasi subito a correggere e rovesciare l’assunto teleologico centrale e positivo. In realtà, e come suggerisce lo stesso suo insistere ad oltranza sul termine «razionale», la cultura razionale francese, proprio in quanto totalizzante, rischia di ripiegarsi su sé stessa. Comporta il pericolo della circolarità e dell’impasse:
[L]a Francia è arrivata a una specie di saturazione della propria razionalità. Anche il partito comunista francese, per esempio, è profondamente formato da questo spirito borghese, razionalistico, illuministico e non ha saputo superare all’interno questa influenza.5
Questa precisazione, come del resto tutto il discorso che Pasolini qui rivolge a Bachmann, corrisponde a quanto afferma, in modo talvolta Beginning of page[p. 61] anche testualmente analogo, in altri contesti risalenti a questo periodo, come ad esempio nel dialogo con le lettrici e con i lettori di «Vie nuove».6 Nell’ultimo numero di gennaio Pasolini infatti ribadisce che tutti i francesi, inclusi gli iscritti al Partito Comunista Francese, sono «immersi in un ambito culturale moralmente indistinto» che,7 in definitiva, risulta omologante e claustrofobico. Da eredi della civiltà nazionale, i compagni del PCF ne sono quindi diventati prigionieri, vi sono anzi rimasti murati dentro — come «faraoni dentro la loro piramide».8 Ma in realtà una via d’uscita dalla piramide ci sarebbe stata. E sarebbe dovuta passare attraverso una radicale critica allo stesso marxismo, attraverso «un rivolgimento totale [di quei] valori, politici, morali e letterari» che allora definivano la cultura marxista.9 Sennonché, così precisa Pasolini, «[n]essun marxista francese ha mai condotto con coraggio questa revisione […] che coinvolgesse tutto quanto è stato prodotto dalla grande cultura francese dalla fine dell’Ottocento a oggi».10
È un punto su cui Pasolini in altro contesto si compiace di trovare l’avallo niente meno che da parte di Jean-Paul Sartre,11 già dedicatario di una sua poesia — «Profezia» — che del problema qui discusso presenta gli incunaboli, ma in una prospettiva rovesciata. Mentre in «Profezia» l’accento cadeva sul ruolo degli altri, sui popoli subalterni e sul loro auspicato avvento rivoluzionario sull’Occidente, ora l’interesse Beginning of page[p. 62] di Pasolini si concentra sulla responsabilità che di fronte a questo avvenimento incombe sui marxisti, in particolare quelli europei. Ne evidenzia il potenziale storico. Tutto secondo lui dipenderà da come essi reagiranno all’occasione presentata loro dalla presenza, anzi — con termine che ricorda una nota espressione di De Martino — dall’«irrompere» dell’Altro,12 delle classi subalterne, nella storia occidentale. Il caso francese ancora una volta gli si presenta come emblematico:
La domanda è: una nazione come la Francia come si pone di fronte all’irrompere di irrazionalità dal Terzo mondo, il mondo della fame? La Francia, in realtà, non ha rapporti con questo Terzo mondo. Perché questa irrazionalità non è sistemabile se non attraverso una modifica della razionalità. La Francia si pone come ammaestratrice di razionalità di fronte ai popoli coloniali; infatti li educa benissimo. […] La Francia non ha preso niente da loro, ha invece offerto un modello di educazione, di razionalità, di civiltà, senza imparare niente. Perché il modello religioso, irrazionale, preistorico che il Terzo mondo porta con sé non è razionalizzabile. I francesi devono modificare la loro ragione se non vogliono restare indietro […].13
È un passo intrigante, e non solo per la notoria lucidità con cui Pasolini identifica, criticandoli, i «caratteri regressivi» della condizione storica della Francia (o, in generale, del mondo) coloniale.14 Prima però di entrare nel vivo del problema che Pasolini pone in questo passo — e del modo specifico in cui lo pone — vale la pena notare che sullo sfondo del suo ragionamento si staglia una traccia testuale ben riconoscibile.
2. La Francia «ammaestratrice di razionalità»: la formula racchiude, in sintesi, il soggetto del primo dei tre apologhi o episodi «ideocomici» di Uccellacci uccellini, quello intitolato «L’aigle» (o «L’uomo Beginning of page[p. 63] bianco») e che poi sarà escluso dalla versione finale del film.15 In questa opera il riferimento all’esperienza francese, esplicito sin dal titolo in lingua, è duplice: storico, in quanto rivolto alle problematiche del razionalismo citate precedentemente, ma anche biografico-personale, secondo il noto innesco circolare tra privato e universale che tanta parte ha nell’opera di Pasolini.16 Il soggetto de «L’aigle», infatti, è incentrato su tale M. Cournot,17 addestratore di «un famoso circo francese «e specializzato, in particolare, nelle tecniche di «addomesticamento di animali selvaggi».18 E come sappiamo, lo stesso Cournot altro non è che una controfigura caricaturale dello storico personaggio di Michel Cournot, critico per Le Nouvel Obs e autore di una severa stroncatura del Vangelo secondo Matteo dopo la proiezione del film a Parigi, al cinema della Mutualité, nel mese di dicembre del 1964.
Tutto allora germoglia da una banale combinatoria di offese e risentimento verso la critica ricevuta? A conferma della pratica tipicamente pasoliniana della «surenchère» («ingigantire l’offesa per renderla indimenticabile»)?19 Sì — almeno a considerare il tenore idiosincrasico diffuso nell’intera serie dei testi che tra gennaio e maggio Pasolini dedica alla sua esperienza della Francia e, come scrive in una poesia pubblicata su «Vie nuove», all’abitudine francese di «apprestare carte razionali» per ammaestrare tutti quelli che non le si conformano.20 Ma anziché un semplice vizio di fondo, di permalosità o altro, il suo coinvolgimento ossessivo in questa vicenda sembra piuttosto Beginning of page[p. 64] stare a indicare che essa ha toccato nel vivo la sensibilità di Pasolini intellettuale, lo riguarda alla radice. Togliendosi lo sfizio polemico di reagire a Cournot e, in generale, ai «faraoni» ossia, in prospettiva, alle mummie della razionalità, in realtà interroga anche sé stesso, in quanto cresciuto all’insegna della loro stessa cultura di valori. La sua formazione, come infatti dirà a Bachmann, è essenzialmente francese: «Parigi è una città meravigliosa, la matrice della mia cultura è lì».21 Ma proprio come matrice, condizionamento eteronomo, Pasolini è portato a rivederla e criticarla, come (e più di quanto) in passato non avesse fatto con il “modello Gramsci”. Riafferma così la propria vocazione all’antagonismo rispetto a ogni paradigma normativo. Il dialogo di Pasolini con la cultura intellettuale francese che negli anni a venire costella la propria carriera, da Uccellacci uccellini fino a Salò, equivale quindi anche a un dialogo o un agone con sé stesso, in particolare, con quella parte interiorizzata della cultura dominante che paradossalmente ritiene sia da superarsi, appellandosi a ineffabili elementi “talassici”, a una mai o mal «superata [forza] nelle latebre dell’[…] inconscio».22
Negli anni a venire questo agone sarà spostato e tematizzato sempre di più su un piano di critica postcoloniale, impostata su un’opposizione radicale tra Occidente (simboleggiato dalla «Francia del grande razionalismo») e mondo sottosviluppato (corrispondente a un «irrazionalismo pre-industriale»).23 E già nel dialogo con Bachmann sembra che questa opposizione assuma i caratteri, precisamente, di quella posizione «anti-dialettica» in cui Franco Fortini, con riferimento proprio al periodo in questione, gli anni ’60, identificava il suo «limite ideologico» definitivo, perché strettamente ancillare all’«ordine di valori […] tradizionali della borghesia ossia quello che ha al suo vertice […] la razionalità e l’irrazionalità, giustapposte e contrapposte».24 Da un lato, il «modello francese», un razionalismo asfissiante ed asfissiato, dall’altro il Terzo mondo, un blocco erratico che «non si può razionalizzare». Come se fosse inconcepibile ogni rapporto che non sia di stridore, di urto, di violenza.Beginning of page[p. 65]
In realtà il discorso di Pasolini in quel dato momento non risulta ancora essere chiuso a ogni ipotesi di mediazione. L’appello indirizzato ai francesi a «modificare la ragione» presuppone, alla base, la fede nella sostanziale duttilità della storia e, mediatamente, nella dialettica e nella sintesi. Non il categorico rifiuto del modello razionale e del suo canone storiografico è dunque quanto trapela dal dialogo con Bachmann ma, bensì, la richiesta di una verifica paradossale — analoga a quella che all’epoca maturava in seno alla filosofia psicoanalitica, proiettata verso una revisione della tradizionale logica aristotelica nei termini di un sistema integrante il cosiddetto «pensiero asimmetrico».25 Tutte le opere successive di Pasolini fino a Porno-Teo-Kolossal sono intestate a questa verifica, protratta sul filo, come ha fatto vedere Paolo Desogus, della scandalosa «dialettica binaria, inconciliabile» tra le idee che gli derivano dalla propria condizione di intellettuale marxista e quelle che invece nascono dalla sua negazione.26 I presupposti di questa ricerca comunque cambieranno di segno, dal momento che la posizione ultima di Pasolini, come vedremo meglio più avanti, prevede un’esplicita ritrattazione dall’intera cultura razionalista.
Nei paragrafi che seguono il graduale capovolgersi dell’ordine dei termini in cui Pasolini pone la questione del razionalismo sarà interrogato alla luce di due opere appartenenti al corpus di testi e film tematicamente affini alla problematica del Terzo mondo: «L’uomo bianco» e, soprattutto, gli Appunti per un’Orestiade africana. Tra i due esiste un rapporto di complementarietà, ma rovesciata: mentre l’episodio di Uccellacci e uccellini è impostato sullo schema di una parodia anti-coloniale (anti-francese), dagli esiti prevedibili, negli Appunti lo stesso schema risulta sospeso e interrogato in funzione di ipotesi più interlocutorie, ambivalenti — o, secondo un termine proposto da Manuele Gragnolati, di «Kippbilder».27 Gli equilibri paradossali del ragionamento che Pasolini esprime in quel film comunque anticipano,Beginning of page[p. 66] in nuce, le posizioni anti-dialettiche che caratterizzano il pensiero nell’ultimo periodo della sua vita. In questo senso gli Appunti sembrano potersi leggere come un’opera di svolta — se non addirittura come un’interrogazione o palinodia di tutto quanto l’autore stesso in passato abbia scritto sul rapporto tra Terzo mondo e mondo della ragione.
3. «L’uomo bianco» che nelle intenzioni originarie dell’autore doveva aprire Uccellacci e uccellini rimane in gran parte schiacciato sulla polemica da cui è nato. Se infatti lo si isola dagli altri due episodi, con i quali sta in un rapporto complesso di tensione e di verifica, il racconto non riesce a rendere ragione del livello di articolazione secondo cui Pasolini, per esempio, nel dialogo con Bachmann, ha posto la questione del razionalismo universalista. A differenza soprattutto del terzo e più estroso dei tre apologhi («Le corbeau» ossia, come s’intitolerà nella sceneggiatura, «Laggiù»), la distribuzione delle parti in questo caso è e rimane fino alla fine chiara, malgrado il buon numero di trovate fantasiose che ne imbrogliano, senza però intaccarla, la tesi di fondo.
Troviamo, da una parte, M. Cournot e la moglie Monique, sua assistente, i quali sono a capo del «Pantheon del “Grand cirque”»; dall’altra parte le bestie addomesticate, in particolare, un’aquila selvaggia, ancora da addomesticarsi ma che si rivelerà essere indomabile. Infine c’è Ninetto, sospeso tra le due parti, ma non al punto da rompere lo schema dualistico, perché tende comunque dalla parte degli animali — secondo un tratto che lo caratterizza anche in altri contesti.28 Il setting corrisponde quindi alla riproduzione allegorica dei rapporti di forza secondo una visione «marxista-dicotomica»:29 la classe dominante si oppone alla classe subalterna, in particolare, i colonizzatori ai colonizzati. Tra i due non c’è reciprocità ma soltanto dominio unilaterale ed estensione coatta di un modello di valori, dato per universale. «[T]u devi», così Cournot all’aquila, «metterti in rapporto con me, e questo rapporto deve essere un rapporto dialettico!».30Beginning of page[p. 67]
A questa costellazione un po’ meccanica, funzionale alla tesi da dimostrare, corrisponde lo svolgersi della trama secondo una simmetrica inversione dei ruoli tra l’addestratore e l’addestrando, tra Cournot e l’Aquila. A rivelarsi essere un animale, alla fine, non è quest’ultima, indifferente agli appelli e ai comandi del suo addestratore, assorta nel silenzio di una sua divina superiorità ma, bensì, Cournot, l’uomo civilizzato che quanto più si fissa sul proprio obiettivo civilizzatore, tanto più fallisce. Onde finisce in preda alla disperazione, in crisi letteralmente isteriche che da civile lo rivelano tale quale era sin dall’inizio: un selvaggio, un essere tutto pulsioni. Infatti, tra i dettagli che Pasolini aggiunge nell’elaborazione della sceneggiatura, ce n’è uno che merita attenzione, anche perché dà vivacità e spessore all’impostazione dell’apologo e alle sue variabili allegoriche: Cournot sin dalla prima sua apparizione è caratterizzato da strani «tic», nella fattispecie, «gomitate, ammicchi al vento, stiramento dei tendini del collo, piegamento delle gambe», fino alla comica emissione coatta della «pernacchietta “francese”».31 Ora da questi «tic» egli è investito puntualmente ogni volta che di fronte al suo oggetto, l’aquila, pronuncia la parola chiave del suo progetto: «civilizzazione».
La felice trovata riassume, simbolicamente, l’idea del sintomo nevrotico quale risultato, se non quintessenza, della storia della civiltà moderna, secondo le tesi che all’epoca stavano al centro delle riflessioni freudo-marxiste, in particolare, di Norman O. Brown, con cui Pasolini era familiare.32 E infatti tutto l’episodio, con l’intensificarsi graduale delle «ondate di tic» di Cournot,33 segue uno sviluppo narrativo inversamente proporzionale al controllo razionale che quest’ultimo ha su sé stesso, sulla sua missione, sugli altri. Nella struttura chiastica su cui il racconto è incardinato, sembra in effetti racchiudersi un accenno Beginning of page[p. 68] all’interpretazione (controversa) dei concetti freudiani dell’uomo quale «animale nevrotico», indissolubilmente legato a un’«eredità arcaica» che torna a farsi valere nella misura in cui viene rimossa.34 In questo senso, l’immagine di Cournot che all’insuccesso della sua missione reagisce con una furia convulsiva, con «urla selvagge» in cui inneggia a Hitler e alle camere a gas come le vere soluzioni civilizzatrici,35 anticipa le sempre allegoriche (ma non più, o molto meno evidentemente, comiche) scene dei quattro borghesi di Salò, nel «Girone del sangue», esasperati e violenti di fronte alla loro propria incapacità di controllare la volontà e i desideri dei loro sudditi.36
Se «L’aquila» (o «L’uomo bianco») esprime una critica della pretesa superiorità della cultura razionalista borghese per contrapporgli il «pensiero selvaggio», seguendo le tesi di Claude Lévi-Strauss, l’epilogo delle stesse tesi altera comunque ed esaspera le conclusioni: non la revisione critica o l’azzeramento delle gerarchie dominanti tra civiltà arcaica e moderna è quanto dimostra l’episodio ma bensì, l’esaltazione della prima a valore assoluto attraverso una sorta di apoteosi. L’aquila infatti rimane una sfinge, del tutto insensibile alle “ragioni” di Cournot. Quest’ultimo, di rimando, si aliena man mano dalla propria identità di uomo civile: la perde come una pelle artificiale per seguire un’oscura vocazione regressiva, innescata da elementi di cultura religiosa (le note di un brano della Passione secondo San Giovanni) — secondo una concezione tendenzialmente positiva, ancora una volta freudo-marxista, della religione come depositaria ed «espressione dei desideri immortali del cuore umano».37 Il percorso di Cournot presenta una specie di variazione del topico going native che si articola in tre scene e, paradossalmente, culmina nella sua regressione a livello di bestia ossia, in una «imitatio aquilae»:38 prima assume la stessa postura dell’aquila, poi corre per le strade «agita[ndo] le braccia come ali» e, infine, «spicca il volo» e si libra «su verso le alte vette scintillanti» — verso le Beginning of page[p. 69] «misteriose solitudini, di regni non umani».39 L’apologo a questo punto si rivela essere imparentato alla struttura narrativa e simbolica di Teorema, dove l’incontro-scontro tra il mondo borghese e un misterioso mondo arcaico si ripropone risolvendosi, proprio come ne «L’uomo bianco», in una trasformazione mitico-religiosa del primo che corrisponde al suo «annullamento» —40 nell’uscita di Paolo dalla storia borghese ossia, vice versa, nel suo ritorno al deserto, al tempo del mito.
4. Quando all’incirca tre anni dopo, tra il 1968 e il 1969, con i suoi Appunti per un’Orestiade africana, Pasolini tornerà a porsi il problema della «scandalosa dialettica del Terzo mondo»,41 i presupposti saranno ben diversi, a cominciare dall’impostazione teorica della questione. Essa infatti non sarà più incentrata sulla «modificabilità» della cultura razionalista europea (francese). A essere interrogata sarà, bensì, quella dei popoli subalterni e della loro irrazionalità. Questa variazione ne comporta un’altra, ancor più fondamentale, che riguarda la scelta del genere, ossia la rinuncia al genere — rinuncia indicata sin dal titolo e corrispondente alla poetica del non-finito, della progettualità, del paradossale “fallimento riuscito”.42 Venuto meno il vincolo della polemica contro i «faraoni» della razionalità, Pasolini in quest’opera sembrerebbe muoversi con una ben diversa libertà sperimentale. Se anche in questo caso parte da una tesi (esposta nel commento a inizio del film), negli Appunti la forma è funzionale, non già, come nell’apologo, a una dimostrazione, bensì alla verifica e critica — anzi, a una decostruzione profondamente ambigua sia della tesi che dell’autorevolezza di chi l’ha avanzata.
Beginning of page
[p. 70]L’idea di partenza notoriamente consiste nella ricontestualizzazione dell’Orestea di Eschilo, soprattutto delle Eumenidi, nell’Africa moderna. L’interpretazione del mito da parte di Pasolini si orienta, almeno apparentemente, al modello «evolutivo-affermativo» (già riscontrabile alla base della traduzione che dello stesso testo di Eschilo fece nel 1960, in vista di una messa in scena a Siracusa).43 Secondo questo modello, il mito di Oreste, in particolare l’istituzione dell’Aeropago e quindi l’assoluzione di Oreste dal suo selvaggio delitto matricida da parte di un tribunale civile, riflettono una «svolta storica nella vita politica e democratica di Atene»44 — un passaggio epocale e che ha portata simbolica in quanto segna la fine della civiltà arcaica e l’avvento della polis democratica. L’ipotesi di Pasolini prevede di astrarre da questo mito uno schema analogico attraverso cui leggere la situazione storica dei paesi africani, in particolare, nella loro recente fase di decolonizzazione, ossia, nel loro passaggio da stati tribali senza organizzazione e autonomia democratica, a stati democratici moderni.
L’idea lascia subito perplessi. Ricorrendo alla figura dell’analogia, in effetti, Pasolini sembra dare per pacifica l’estensibilità all’Africa di un paradigma europeo; di una storia (nel doppio senso del termine) che implica un principio teleologico, di progresso e di superamento della condizione precedente ritenuta essere deteriore. Proprio quello che tre anni prima, all’epoca di Uccellacci e uccellini, contestava, parlando del Terzo mondo come di un inamovibile blocco erratico di irrazionalità. Quindi Pasolini nel 1968 torna sui suoi passi, saltando Fanon e Biko, per recuperare quegli elementi di cultura storiografica marxista che poco prima riteneva essere erronei? Ignora le implicazioni (ideo-)logiche della sua analogia? Voler leggere, anzi letteralmente inquadrare la situazione africana secondo uno dei cosiddetti charter myths, costitutivo del canone e dell’ordine dei valori dell’Occidente, equivale, almeno sembra, all’ennesimo gesto di sopraffazione coloniale. Come infatti ha scritto Gragnolati interrogandosi sulla «legittimità dell’operazione», Pasolini con questo progetto correva il pericolo di prestarsi a «una mossa imperialista o esotizzante che feticizza e colonizza l’altro».45Beginning of page[p. 71]
Oggi che l’apporto postcoloniale agli studi letterari ha contribuito da tempo a un generale irrigidimento su posizioni di critica coatte, se non addirittura a «veri antistoricismi cretinizzanti»,46 difendere gli Appunti dall’accusa di confermare le teorie e le pratiche di violenza coloniale rischia di essere una camminata sulle uova. Tanto più se si considera che in questo film c’è qualcosa di obiettivamente, e forse — ecco il punto — intenzionalmente irritante. Se infatti è l’ipotesi stessa del film a creare problemi, gli espedienti scelti per metterla in pratica a prima vista non solo non li dissimulano ma, al contrario, li esasperano. Lo “scandalo” ovviamente sta nel modo specifico in cui, distribuendo il materiale girato sull’asse di un’ipotesi narrativa e politica, Pasolini lo commenta, esplicitamente alterando così il valore autonomo dei referenti di realtà. Un caso flagrante, si direbbe, di appropriazione culturale. Dell’ossequio o «complesso d’inferiorità» che Walter Siti gli riscontra negli Appunti per un film sull’India, allorché Pasolini «con un microfono in mano chiede a un contadino poverissimo […] come si chiami il suo villaggio», qui sembra non esserci più traccia. Infatti, come ha scritto Gian Maria Annovi,47 l’autore s’impone «prepotentemente» sul proprio progetto e, verrebbe da aggiungere, sugli ambienti e le persone che coinvolge. Pasolini dirige la realtà, e lo fa anzitutto con la propria voce.
Così, mentre scorrono le sequenze selezionate dal materiale girato in Uganda, in Tanzania, sul lago di Vittoria, su quello di Tanganica nonché al confine con il Congo, la voce fuori campo procede a identificare le dramatis personae della sua immaginata Orestea:
Questo potrebbe essere Agamennone, [nuova inquadratura] anche questo. Il vecchio Agamennone che torna stanco dalla guerra di Troia. [Nuova inquadratura che fa vedere, come precisa la voce narrante, un Masai:] Un’altra variante, per un possibile Agamennone più favoloso e mitico […]. [Nuova inquadratura] Questo potrebbe essere Pilade [segue un commento su Pilade, poi nuova inquadratura] Dietro a questo sinistro velo nero si potrebbe nascondere la faccia di Clitennestra […].48Beginning of page[p. 72]
I condizionali cui Pasolini ricorre in questo inizio di “casting” (e di “location scouting”), quasi a ribadire la natura soltanto euristica della sua operazione, in realtà non fanno che aumentare un senso generale di prevaricazione, perché sembrano rendere indiscriminata l’attribuzione al paradigma precostituito di referenti che ovviamente, per quanto «ancora vicin[i] alla preistoria»,49 hanno uno spessore storico-culturale autonomo e differenziato. Man mano che il casting procede, intrecciandosi a precisazioni e a commenti più convenzionalmente documentaristici, i condizionali diventano meno frequenti, gli “attori” sono presentati perentoriamente, come nel caso di Oreste o nella sequenza “corale” in cui il regista precisa che «[i] protagonisti devono essere questi, ecco qui: questa donna che raccoglie l’acqua del pozzo, questo bambinello, questo giovanotto elegante».
Di rigore, sempre in ottica postcoloniale, si dirà che i personaggi non fanno nemmeno in tempo a comparire che già sono stati alienati, inseriti dal regista in uno schema evolutivo che — secondo un distinguo gramsciano — da «in sé» li vede proiettati a diventare «per sé».50 Se a Pasolini in generale si rimprovera di tributare al culto del buon selvaggio e quindi di misconoscere la storicità delle realtà popolari, qui invece il suo “torto” sarebbe di segno opposto: di ascrivere loro una storia già scritta. Da semplici comparse di una fantasia un po’ rousseauiana, le realtà popolari africane negli Appunti diventano dunque, sì, soggetti, ma secondo un copione già noto che, in definitiva, impedisce di riconoscerli come diversi. In questo senso il termine tecnico inglese usato per definire la funzione narrante extradiegetica nei film, «voice over», qui si rivela avere un significato metaforico ambiguo, quasi da meta-figura narrativa del discorso colonialista. A giudicare dal modo in cui interviene, Pasolini sembra voler suggerire che “M. Cournot, c’est moi”. E in effetti è lui che, in questo caso, dà anziché ricevere; è lui che «apprest[a] carte razionali» per farle coincidere con il territorio dell’altro; che lo conforma al proprio mito evolutivo perché si metta — come l’addestratore chiedeva all’aquila — «in un rapporto dialettico con [lui]». Beginning of page[p. 73]
Ora l’elemento mitologico chiave che Pasolini fa valere nella sua rilettura africana dell’Orestea sta nel controverso passaggio della trasformazione delle Erinni in Eumenidi. Secondo la trama, la riuscita simbolica dell’istituzione della polis attraverso l’assoluzione di Oreste, dipende infatti anche da quest’ultima — dalla placazione definitiva o “addestramento” delle dee persecutrici. L’obiettivo è centrato al momento che Atena convince loro di diventare benevoli o, appunto, Eumenidi. Questo «strappo [che] mette fine alla catena delle vendette» segna la fine simbolica di un’epoca di inciviltà.51 Ora Pasolini in questa trasformazione coglie, non solo un’analogia che gli permette di tradurre qualcosa che sta obiettivamente succedendo, un ricambio storico, il salto delle nazioni africane da realtà tribali e irrazionali, a nazioni razionali e civili. La figura implica anche una sollecitazione. La trasformazione delle Erinni in Eumenidi rappresenta, più che uno scenario possibile, una condizione auspicata: è quanto idealmente dovrebbe succedere perché l’Africa possa diventare parte della Storia. L’ipotesi quindi dissimula un’istanza parenetica, di appello all’assunzione di un ruolo storico che, per quanto meno evidente, assomiglia comunque a quella espressa — anche lì, da una voce dall’alto, da Dio — nella parabola della Sequenza del fiore di carta.
Se grazie al carattere esplicitamente aperto del progetto il suo autore pare situarsi nei confronti dei destinatari su un piano orizzontale, e li coinvolge in un ragionamento critico, quest’impostazione in qualche modo riesce compromessa. Perché rimangono sensibili ovunque degli strascichi di precettistica che alterano e falsano la voce di chi pretende che lo sperimento si svolga in modo imparziale. È quanto nel film diventa manifesto nei due intervalli meta-narrativi, ambientati in Italia, a Roma, in una stanza allestita un po’ come un’aula scolastica o universitaria, non a caso simile a quella apparsa nella scena immediatamente precedente che documenta una situazione di scuola in Tanzania, con giovani «studenti africani […] obbedienti, passivi e umili».52 L’autore che commenta così, nel seguente blocco di scene compare fisicamente, compare in quanto Sig. Pasolini, per confrontarsi con una ventina di studenti universitari, tutti maschi, provenienti dalle parti Beginning of page[p. 74] più disparate del continente africano. È comunque visibile in modo solo intermittente, e sempre solo di scorcio, appoggiato su una sedia appena più elevata, dislocata rispetto alla classe. Non solo l’abito casual e la posa “sportiva”, ma anche la prossemica e la posizione non-frontale assunta nei confronti degli altri, segnalano la volontà di non atteggiarsi da professore. Ciò che importa e che, in effetti, s’impone alla nostra visione sono, anzitutto, i corpi, le posture e, inquadrate in primo piano, le espressioni degli studenti africani i quali, confrontati con l’ipotesi del film, parlano e esprimono i loro giudizi.
In un primo momento, queste sospensioni metanarrative, ispirate al Cinéma-Verité, già sperimentate da Pasolini in Comizi d’amore (1964), sembrano quindi inserite apposta per decentrare il racconto e recuperare quelle voci altre, le voci degli africani, così clamorosamente assenti nelle parti precedenti.53 E infatti è stato detto che l’espediente permette di proteggere il film, e fare da schermo, contro prevedibili condanne per «colonialismo culturale».54 Ma in realtà, lo schermo non funziona benissimo, o non nell’immediato. Nonostante l’atteggiamento anti-autoritario e inclusivo, l’insistere sul carattere sperimentale e “poroso” del progetto — le ambiguità resistono, Pasolini non riesce a sottarsi al ruolo del pedagogo ossia, in qualche misura, dell’addestratore. «Come si potrebbe rappresentare la trasformazione delle Furie in Eumenidi?», chiede agli studenti. La disponibilità a un coinvolgimento aperto maschera il preconcetto. Il metodo seguito sembra proprio quello di M. Cournot: «fare pedagogicamente finta di niente, limitarsi a dare degli esempi».55 Intanto, il canovaccio è già pronto, aspetta solo di essere avallato.
5. Neanche Pasolini quindi è immune a un suo coinvolgimento nel peccato originale di cui si è macchiato l’intero Occidente europeo con la paternalistica pretesa di egemonia sul resto del mondo? Sembra di no, anzi, la sua colpevolezza pare distribuirsi equamente tra due categorie opposte di atteggiamenti coloniali: da un lato, come in «L’uomo bianco», l’esaltazione dell’altro in base a un pregiudizio positivo di Beginning of page[p. 75] irrazionalità che — con i termini usati da Carlo Ginzburg nella sua critica all’approccio di Foucault al caso di Pierre Rivière — corrisponde a un «populismo di segno rovesciato»;56 dall’altro lato, l’indebita estensione del proprio canone narrativo e assiologico a un’esperienza storicamente e culturalmente altra, anzi, come sembrerebbe succedere negli Appunti per un’Orestea africana, la riduzione prospettica di quest’ultima alla prima.
Tutto questo però è troppo evidente. Ed è poco probabile che Pasolini, il quale, notoriamente, non è «un uomo dalle soluzioni facili»,57 si lasci cogliere in fallo così, senza porre trabocchetti agli interpreti e coinvolgerli nella sfida dell’interpretazione di testi e film, come all’epoca amava dire — e lo dice proprio anche nel finale degli Appunti — “a canone sospeso”.58 Ecco due considerazioni finali per cercare di restituire a questo film la sua condizione di opera complessa.
Primo. Nella misura in cui rimane a uno stato soltanto progettuale, la forma stessa del film sancisce l’irrealizzabilità o la fallacia dell’ipotesi da cui muove: ne «mette in scena il fallimento».59 Più che essere una semplice e lineare espressione dell’ideologia d’autore, gli strascichi di paternalismo nel discorso sono piuttosto parti di una strategia rappresentativa che continuamente lo invalida in quanto sta in contrasto con le premesse negative dell’opera stessa. La dinamica è quella immanente alle figure logico-antilogiche: ogni contenuto affermativo contiene in sé la propria contraddizione, pur senza esserne del tutto azzerato. Ed è proprio questo impianto che permette a Pasolini di sostenere una tesi debole, o scandalosa — a tal punto che infatti sembra non volerla prendere a proprio carico fino in fondo. Non a caso nelle scene in cui compare, come si è detto, Pasolini non offre di sé un’immagine trasparente o a tutto tondo ma, bensì, distorta o addirittura «spettrale» (come nella scena iniziale in cui si rispecchia nella vetrina di un Beginning of page[p. 76] negozio),60 o parziale (come nei due intervalli con gli studenti africani). Come a dire, presta la sua voce — ma non ci mette la faccia.
E qui vale la pena tornare ancora una volta ai due intervalli con gli studenti universitari africani. Infatti, essi come reagiscono al progetto che Pasolini gli espone? Si noterà che, contrariamente a quell’atmosfera «piena di silenzio zelante e rispettoso» che domina nella precedente scena con i ragazzi della scuola in Tanzania,61 nell’aula in cui si svolge la discussione con gli universitari, dominano perplessità, critica, se non ostilità. Come infatti ha notato Gragnolati, gli studenti mettono in mostra «una resistenza piuttosto forte al progetto di Pasolini».62 Anche i pochi accenni di simpatia rimangono privi di ogni autentica adesione e non interrompono lo scenario fatto di reticenza e freddezza. Infatti, chi critica Pasolini perché tratta l’Africa come un insieme indifferenziato; chi gli fa notare che si sbaglia sulle realtà tribali; chi si rifiuta a riconoscere nella cultura democratica di stampo europeo un obiettivo desiderevole; chi ancora smentisce che l’analogia si presti a descrivere le situazioni del presente storico, ecc.
In un caso soltanto la presa di posizione degli studenti sembra pienamente soddisfare la attese del maestro, di quella particolare figura di sé stesso che Pasolini espone nelle scene del dibattito. Si tratta del commento, in francese, che uno degli astanti fa sulla possibilità di essere identificato con Oreste e, in particolare, di valutare positivamente, secondo quanto suggerito dal mito, la sua esperienza dell’Occidente:
Moi je crois que l’expérience d’Oreste dans le monde occidentale pourrait être utile dans le cas où, en retournant chez lui il ne pourrait pas confondre, ou bien assimiler, l’expérience qu’il a eu aux méthodes anciennes qui existent chez lui. Je voudrais dire par là […] qu’il ne faudrait pas qu’il soit aliéné […]. Il faudrait qu’il transpose, mais d’une manière plus humaine, ce qu’il a appris dans le monde occidental, chez lui.63
Con la sua risposta, lo studente in effetti sembra accogliere, pur sfumando e rettificandola, l’ipotesi del progetto. E infatti Pasolini Beginning of page[p. 79] puntualmente lo loda per la sua «osservazione molto giusta e intelligente»,64 ossia, con le parole di M. Cournot — la cui ombra ancora una volta si staglia sulle pareti dell’aula — per aver «accettato di entrare in rapporto con l’uomo bianco civile».65 Il riconoscimento fatto allo studente, infatti, non prescinde da una sfumatura di condiscendenza. Per cui non fa che contribuire all’imbarazzo generale della scena, riassunto simbolicamente nell’espressione di uno studente etiope che è visibilmente a disagio: non solo rispetto al progetto ma, si direbbe, anche rispetto alla situazione coatta che lo impegna in un ruolo non suo, in una trama già scritta.
Ma Pasolini dunque non si è accorto di queste manifestazioni, anche corporee, di imbarazzo e contrarietà? Ovviamente sì. E il fatto di non tagliare, ma addirittura evidenziare le scene rispettive, ancora una volta, rientra nei calcoli di una rappresentazione a corrente alternata, di affermazione / ritrattazione. Lo spazio lasciato alle parole e alle immagini che esprimono disagio si iscrivono a tutto il film come l’accertamento di uno scacco. Pasolini non solo l’ha accolto, ma addirittura auspicato, perché è funzionale alla scommessa che sta alla base del suo progetto: proporre un’ipotesi improponibile. E anche gli accenti e le posture da Cournot a questo punto rientrano nella detta strategia retorica di esasperazione che toglie attendibilità e autorità sia all’autore che alla sua idea. Se ora, procedendo per questa via, Pasolini non arriva comunque a sfiorare il ridicolo, è perché la posta in gioco rimane pur sempre seria, l’esposizione della propria impotenza, che sta anche per quella di un’intera classe di intellettuali, inevitabilmente, partecipi di una classe, di una cultura, di un discorso egemoni.
Secondo. Sappiamo che negli Appunti Pasolini ha riscattato idee per progetti che risalgono alla prima metà degli anni ’60. E infatti l’ipotesi stessa della sua Orestea africana sembra improntata alle idee del Pasolini di allora, quando ancora condivideva una visione socialista della storia, accettando quindi anche l’idea di ricavare dall’esperienza occidentale degli strumenti utili, estensibili, universali.66 Nel frattempo le cose però sono mutate sensibilmente, lo stesso modello Beginning of page[p. 78] socialista gli si presenta sempre di più nella sua vera natura, non già di antagonista al capitalismo, ma al massimo di un’alternativa più blanda al primo, tendente anch’essa a un’industrializzazione totale e all’asservimento di tutto e di tutti alle ragioni del mercato. Ora negli Appunti Pasolini mette a nudo non solo il carattere ideologico, di forza, di ogni interpretazione universalista della storia, ma con ciò anche l’ingenuità della propria posizione di intellettuale degli anni ’60: la voce narrante e il personaggio dell’autore intravisto in alcune scene pertanto sembrano rimandare a una figura superata di Pasolini, al Pasolini del cinema nazional-popolare (e infatti precisa «[v]orrei che il mio film sull’Orestiade in Africa, fosse un film il cui carattere fosse essenzialmente popolare»).67 L’opera a questo punto sembra corrispondere alla formula cui Pasolini ricorre anche in altre occasioni, di una «imitazione di [un] [sé]stesso di allora».68
Tra le parti meno coinvolte in questa strategia auto-manieristica sono, non a caso, quelle dedicate alle Furie, cioè, per estensione, «il momento animale dell’uomo», espressione di un «mondo ancestrale […] destinat[o] a scomparire». Come a dire: i momenti più autentici del film non sono quelli speranzosi, quelli che i canti rivoluzionari russi sullo sfondo vogliono relativi all’idea di un’Africa socialista e progressista. Questi ultimi, al contrario, rimangono essenzialmente retorici. E come tali culminano nella paradossale conclusione in cui si afferma che la storia «di un popolo non conosce […] retorica».69 È bensì nei momenti negativi, nella rappresentazione di ciò che inevitabilmente va incontro alla scomparsa, che l’invenzione di Pasolini sembra acquisire intensità. La riuscita tradisce una propensione per le Erinni — per le «misteriose potenze», per ciò che sta fuori dalla storia — ed è direttamente proporzionale al presagio della loro imminente distruzione. Infatti, l’ipotesi sulla storia africana, della coesistenza del «antico mondo magico» nella modernità non resisterà all’estendersi progressivo e distruttivo dei nuovi rapporti di produzione che Beginning of page[p. 79] ispirano a Pasolini dichiarazioni come quelle che farà, circa sei anni dopo, in una conversazione con Bachmann su Salò: l’idea di storia, così com’era stata «prodotta dalla cultura eurocentrica», è sbagliata, anzi non esiste.70 Esiste solo la soppressione e la sostituzione. Alla luce di queste affermazioni, la troppo euforica conclusione degli Appunti, volta a mostrare la «libertà [e] disponibilità verso il futuro, negli Africani»,71 sembra contenere, all’inverso, quella brutalmente anti-retorica, evocata nell’intervista che Pasolini, a poche ore dalla propria morte, rilascerà a Furio Colombo:
Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. […] Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanto predoni, che vogliono tutto a qualunque costo.72
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