
Il saggio analizza la complessa relazione tra Pier Paolo Pasolini e lo strutturalismo francese, inteso non come appartenenza teorica o poetica, ma come polo di tensione dialettica. Al centro dell’indagine vi è il confronto critico tra la riflessione pasoliniana sul linguaggio e i metodi dello strutturalismo francese, con particolare attenzione alle proposte teoriche antireferenzialiste provenienti dalla Francia e facenti capo soprattutto a Barthes. A partire dalla ripresa degli studi di Hjelmslev il saggio mostra come Pasolini tenti una sintesi tra strutturalismo e marxismo, fondata sulla centralità dell’elemento concreto nella semiosi.
Mots-Clés: Strutturalismo; referente; Barthes; Hjelmslev; segno
Il titolo, Pasolini e lo strutturalismo, non si riferisce a un’appropriazione o a una particolare affiliazione di poetica e teoria; né, per riprendere una nota definizione dell’autore, riguarda un’endiadi (Pasolini strutturalista o strutturalismo pasoliniano). Indica piuttosto una prossimità che nasce da una contraddizione fra campi mai pienamente riducibili. Come spesso accade in Pasolini, la congiunzione «e» ha infatti un valore contraddittorio e, in modo simile a quanto accade nella coppia di «passione e ideologia», mette insieme termini tra loro in conflitto. In questo caso il confronto è tra due aree — quella afferente al Pasolini poeta e scrittore, interessato alla linguistica e alla scienza dei segni, e quella della ricerca strutturalista divenuta centrale nella teoresi di Pasolini dai primi anni Cinquanta1 sino agli ultimi anni con le note analisi corsare e luterane sui fenomeni culturali e sociali. Soprattutto nei saggi di Empirismo eretico, che raccoglie gli scritti più teorici redatti tra il 1964 e il 1971, è possibile ricavare contrasti e rifrazioni utili per accedere al laboratorio pasoliniano e studiare la sua riflessione intorno ai sistemi segnici e lo stile in un momento cruciale del suo percorso, ovvero nella fase di ridefinizione del bagaglio metodologico e di rinnovamento del nesso tra marxismo e linguistica messo a punto negli anni Cinquanta con lo studio di Gramsci.Beginning of page[p. 102]
Il rapporto tra Pasolini e lo strutturalismo non è stato pacifico, soprattutto se si considera l’attenzione riposta verso gli studi condotti in Francia, da lui frequentati con un atteggiamento oscillante, di apertura e rifiuto, ma in ogni caso con l’intento di recuperare dai loro esiti materia per accrescere quella coscienza poetica alla base della sua scrittura verbale e visiva. Quella di Pasolini si direbbe una diffidenza non tanto verso i singoli esponenti che hanno aderito allo strutturalismo. È infatti nota l’ammirazione verso Barthes,2 così come l’interesse verso Lévi-Strauss e persino verso il Foucault delle Parole e le cose.3 La critica di Pasolini riguarda l’impianto metodologico di fondo, orientato verso un tipo di razionalismo che a suo avviso «rappresenta alla perfezione il momento del pensiero occidentale nei paesi di capitalismo avanzato».4
Alla luce del rifiuto della neutralità ideologica del metodo strutturale vorrei allora concentrarmi non su quanto di strutturalista ci sia nel pensiero di Pasolini — poco, a dire il vero — ma piuttosto sulla postura polemica che lo scrittore ha tenuto verso questa corrente che ha conosciuto in Francia un’influenza decisiva, con un’espansione nei vari campi del sapere maggiore che in qualsiasi altro paese europeo: decisamente più vasta e profonda che in Italia, ma anche più grande e più articolata di quanto accaduto nei paesi in cui sono stati costruiti i suoi fondamenti, come Svizzera, Danimarca e Cecoslovacchia. In particolare vorrei soffermarmi sugli elementi di contrasto che Pasolini Beginning of page[p. 103] ha opposto allo strutturalismo francese, relativi in particolare all’esclusione del carattere processuale dei sistemi linguistici e alla questione intorno al «valore» ricavato dal problematico rapporto tra segno e realtà.
A questo proposito credo che sia utile partire da una citazione ricca di elementi teorici e ripresa dalla lunga intervista Pasolini su Pasolini, dove l’autore risponde a una domanda sulla polemica francese contro uno dei padri dello strutturalismo, ovvero il danese Louis Hjelmslev:
Sono in pieno disaccordo con gli strutturalisti francesi, per quanta ammirazione possa avere per uno come Lévy-Strauss [sic]. E infatti la conclusione di quel mio articolo5 era che si dovesse abbandonare del tutto il termine «struttura» adottando in sua vece il termine «processo», che incorpora il termine «valore». Una struttura si evolve solo e in quanto esistono valori che la fanno evolvere, valori che in certo qual modo sono inerenti ad essa, ma che fanno sì che la struttura non si fossilizzi in una sorta di razionalismo francese vecchia maniera. La mia scelta del termine «processo» illustra il mio dissenso dallo strutturalismo, ed è qui che entra in gioco il concetto di valore.6
Non mi soffermerò immediatamente sui vari passaggi di questa citazione, a suo modo ricchissima di risonanze che travalicano l’ambito dello strutturalismo francese e che chiamano in causa altri aspetti del laboratorio pasoliniano, in particolare il marxismo, ma li analizzerò man mano con l’obiettivo di scioglierne i nessi principali. Quello che in ogni caso emerge da subito è che questi passi pasoliniani non si limitano a esprimere semplicemente una presa di posizione. Il loro contenuto polemico ha probabilmente come bersaglio la teoria del cinema di Christian Metz7 (e in qualche misura forse anche il pensiero di Barthes e persino di Althusser), ed è espresso in modo chiaro e inequivocabile. Ma al di là degli schieramenti pro o contro lo strutturalismo francese, mi sembra che da queste considerazioni emergano alcune questioni Beginning of page[p. 104] teoriche che interessano la più generale concezione pasoliniana dei sistemi linguistici.
Il brano citato va per questo motivo letto parallelamente alla riflessione coeva, sviluppata all’interno di «Dal laboratorio. Appunti en poéte per linguistica marxista», prima parte di un più ampio scritto pubblicato nel 1965 e poi confluito in Empirismo eretico nella sezione dedicata alla linguistica. Seppure «en poéte», al suo interno Pasolini tenta di gettare le basi per una linguistica che non si limiti, come lo strutturalismo, a studiare la lingua in senso puramente formale e sincronico, facendo cioè «la geometria del magma».8 Lo studio dei sistemi espressivi deve prendere in considerazione la loro relazione con la base sociale che si manifesta nel loro impiego, nel loro accadere e fluire, insomma nella loro processualità, intesa in una doppia accezione: come divenire storico e come esperienza concreta.
A questo proposito non deve stupire che le pagine del «Laboratorio», contengano numerose annotazioni sull’esperienza linguistica personale di Gramsci. Anche negli anni Sessanta e soprattutto nelle pagine dedicate alle «nuove questioni linguistiche» il pensatore sardo resta un punto di riferimento di primaria importanza sia per sottoporre a verifica le proprie intuizioni teoriche che per riflettere sull’idea di lingua in rapporto ai processi sociali, soprattutto in questa fase storica segnata, secondo Pasolini, dal superamento delle vecchie forme di dominio e sfruttamento. Dalla fine degli anni Cinquanta lo scrittore osserva infatti l’emergere di un nuovo capitalismo, che proprio in virtù della sua promessa di benessere si dota di un apparato culturale e politico vòlto a giustificare la propria supremazia. In senso gramsciano la lingua è anche per Pasolini la cartina di tornasole di questo mutamento di egemonia. Comprenderne le determinazioni politiche veicolate dall’uso sociale e letterario permette in questo senso di risalire al nuovo assetto ideologico.9
Come già si osserva nella «Confusione degli stili», del 1956, a Pasolini interessa il modello teorico gramsciano del quaderno 29 in cui la lingua appare come il centro di tensioni fra forze centrifughe,Beginning of page[p. 105] determinate dall’uso individuale, e forze centripete che esercitano sui singoli il potere della norma.10 Si tratta dunque di qualcosa di molto diverso dal concetto saussuriano di langue alla base dello strutturalismo e dell’indagine sincronica dei sistemi linguistici. È proprio il modello gramsciano a imporre di considerare la lingua nel campo di forze allestito dalla vita sociale, intesa come spazio che accoglie il collettivo e l’individuale.
Tale concezione ha dirette ricadute anche sul lavoro di scrittura. Con la mediazione di Gramsci, per Pasolini il momento poetico non è dato per «partenogenesi»,11 non è un effetto di senso creato nella lingua o nel gioco intertestuale con la tradizione, secondo il modello che fa coincidere creazione e infrazione. Tale modello è anzi ciò che Pasolini più ha contestato, soprattutto nella polemica con il novecentismo e successivamente con la neoavanguardia. L’atto di creazione per sfuggire alle astrazioni dell’illusione dell’autonomia dell’estetico o all’idea che l’impegno sia un effetto di senso da riprodurre mediante le sperimentazioni avulse dal concreto-sensibile, necessità del confronto con la realtà.12
Occorre tuttavia osservare che, nonostante alcune derive, ostili non solo allo storicismo ma allo stesso concetto di storia, i primi esponenti dello strutturalismo, Ferdinand de Saussure e Louis Hjelmslev, non negano l’esistenza dei rapporti diacronici. Chi si è ispirato al loro metodo di analisi ha nondimeno ripreso quasi esclusivamente l’aspetto Beginning of page[p. 106] formale dei rapporti sincronici che definiscono un dato sistema linguistico come totalità di componenti tra lo solidali, governati da un rapporto differenziale di determinazione reciproca.
Diverso è il punto di vista di Pasolini. La sua proposta teorica mette l’accento sul divenire dei processi di significazione e su come essi contribuiscano a modificare le strutture linguistiche. Come si è visto in precedenza: «Una struttura si evolve solo e in quanto esistono valori che la fanno evolvere, valori che in certo qual modo sono inerenti ad essa».13
A che tipo di «valori» fa però riferimento Pasolini? Per gli strutturalisti e in particolare per gli strutturalisti francesi che hanno fatto del carattere immanente della struttura un tratto irrinunciabile, il valore degli elementi di un sistema è stabilito dal principio differenziale. Lo stesso Barthes negli Elementi di semiologia del 1964 — testo celeberrimo di cui è difficile pensare che Pasolini non ne conoscesse il contenuto — riprende Saussure alla lettera: «nella lingua non vi sono se non differenze».14 All’interno di un dato sistema ogni valore è pertanto definito non da proprietà intrinseche, né dalla sostanza linguistica dei concreti atti di comunicazione dei singoli soggetti, né tantomeno dal suo referente. Il valore è dedotto negativamente dal rapporto che ogni elemento del sistema istituisce rispetto alla sua totalità. Per essere più chiari possiamo immaginare un sistema fatto solo dallo spettro dei colori. Al suo interno il valore di ciascuno dei colori non sarà definito sulla base di una loro qualche proprietà o sostanza, come quelle che i fisici individuano nel campo elettromagnetico, ma è dato negativamente per sottrazione. Per cui quello che chiamiamo rosso è tale perché non è giallo, verde, blu, non è insomma nessuno degli altri colori dello spettro.
Il modello negativo del valore è per gli strutturalisti la garanzia del carattere immanente della struttura indipendentemente dalle manifestazioni concrete: la parola «rosso» e la porzione di spettro elettromagnetico che di solito identifichiamo col rosso condividono lo stesso valore sebbene siano l’espressione di sostanze linguistiche Beginning of page[p. 107] diverse. Non solo, il modello strutturalista garantisce lo studio dei fenomeni culturali in modo separato e autonomo dai fatti reali. Il «significato — afferma Barthes negli Elementi — non è una “cosa”».15 Solo così, solo concepito formalmente è possibile garantire ai valori del sistema il loro carattere differenziale, composto dunque da rapporti strutturali.
L’antireferenzialismo è naturalmente comune a molti altri strutturalisti o anche post-strutturalisti come Martinet, Derrida, oltre che allo stesso Barthes. Almeno per una porzione significativa del suo percorso teorico anche Eco in Italia ha mantenuto posizioni simili. Di tutt’altro avviso è invece Pasolini, che ha rivendicato l’elemento trascendente della significazione e cioè il rapporto delle forme semiotiche con il reale fondato sull’esperienza diretta delle cose del mondo. Lo si vede in particolare nella riflessione pasoliniana sul «cinèma» che Pasolini elabora nei primi anni Sessanta16 e che riprende in polemica con Metz e con l’idea secondo cui non esiste una lingua del cinema, perché non esistono elementi articolatori che compongono i singoli testi cinematografici, come il fonema e il monema nei sistemi verbali.17 Al contrario, secondo Pasolini, il cinema è una lingua e gli elementi articolatori sono ricavabili dalla realtà posta di fronte alla macchina da presa e messa a disposizione del regista e del montatore al momento della fase terminale di produzione del film. In tal senso il cinèma e l’inquadratura sono l’equivalente cinematografico del fonema e del monema con la differenza che però il loro statuto semiotico è sempre intimamente legato alle sostanze del reale. Per cui un segno non è solo qualcosa che rimanda a qualcos’altro, un significante per un significato, un’espressione per un contenuto. Il segno rimanda anche a se stesso, alle proprie intrinseche qualità espressive.18
Sempre nell’ambito della riflessione semiotica, merita di essere ripreso quello che Pasolini ha affermato in polemica con Umberto Eco, che nella Struttura assente gli rimprovera «di ricondurre i fatti Beginning of page[p. 108] di cultura a fenomeni di natura».19 Proprio in ottica francese questa affermazione è interessante perché la separazione di cultura e natura è stata ispirata a Eco da Roland Barthes e in particolare dalla celebre affermazione secondo cui per fondare la semiotica moderna sarebbe stato necessario uccidere il referente: «Il faut tuer le réferant».20 In polemica con Eco, e indirettamente dunque con Barthes,21 Pasolini afferma che occorre guardare «oltre il ciglio dell’abisso», occorre cioè sporgersi oltre la soglia del dato strettamente culturale, dal momento che ogni struttura è in qualche modo sempre direttamente legata a una struttura originaria, a un’«ur-struttura», che Pasolini fa coincidere con la realtà.22
I termini di questa polemica sono stati ampiamente discussi, ma rischiano di generare confusione e di far rientrare Pasolini nell’area strutturalista troppo frettolosamente e senza aver chiarito tutte le premesse che rendono questa affiliazione molto problematica. Occorre a questo proposito riprendere un famoso passo polemico di Eco su Lévi-Strauss, a mio avviso menzionato però da Pasolini in modo esclusivamente strumentale.23 Eco si riferisce all’«ur-struttura» per criticare l’idea di un «codice universale capace — secondo Lévi-Strauss — di esprimere le proprietà comuni alle strutture specifiche» e dunque di sussumere i diversi sistemi culturali attraverso un percorso che dalle forme più avanzate conduce a quelle più elementari.24
Possiamo dire che la critica all’antireferenzialismo abbia portato Pasolini ad avvicinarsi per vie traverse allo strutturalismo? Si direbbe, in effetti, che la riflessione sull’ur-struttura e sul codice dei codici costituisca la formulazione teorica che maggiormente avvicina Pasolini Beginning of page[p. 109] allo strutturalismo francese o comunque allo strutturalismo di Lévi-Strauss.
Il saggio del 1971, intitolato «Res sunt nomina», aiuta a superare ogni ambiguità. Come si può notare in queste pagine, il «codice dei codici» assume una configurazione diversa da quella che gli aveva attribuito Lévi-Strauss. La sua funzione non è tanto quella di una struttura che ne ritraduce altre, ma rappresenta una sorta di matrice alla base delle esperienze primarie, da cui discendono le forme veicolate dal sistema linguistico audiovisivo, ovvero il cinema. È del resto evidente, anche nelle pagine polemiche contro Eco, che a Pasolini non interessi definire gli elementi di un sistema solidale di forme da cogliere in termini differenziali, secondo il loro rapporto di reciprocità. In Pasolini il codice dei codici è l’istanza a quo della significazione, è l’essere come fonte di semiosi suscettibile a trasformarsi, a evolvere, ad assumere il carattere dinamico di combinazione di valori linguistici attraverso un processo di continue mutazioni. In maniera più prossima agli autori della Dialettica dell’illuminismo, testo che sotterraneamente sembra spesso agire in Pasolini e che mi pare particolarmente consonante con la critica degli autori allo strutturalismo francese, il segno non acquisisce il suo valore conoscitivo divenendo un’astrazione formale. Il segno — il segno non omologato, non frazionato e ridotto a elemento di calcolo — non abdica alla pretesa di somigliare alla realtà.25 Il segno conserva il suo rapporto intimo con l’esperienza delle cose del mondo. Per questo Pasolini parla di «empirismo» a cui aggiunge «eretico»: la linguistica che lui propone vive con l’esperienza della realtà che sfugge alle astrazioni.
Il ricorso alle riflessioni di Lévi-Strauss — ma a ben vedere anche di altri autori — è dunque strumentale, determinato dalla necessità di partecipare a un ambito di ricerca e assimilarne i dati che consentono di sviluppare il proprio punto di vista teorico. È interessante a questo proposito seguire il filo dell’argomentazione pasoliniana. In particolare occorre osservare che nelle pagine del Laboratorio dedicate al tema della lingua in Gramsci Pasolini abbia rinunciato ad esplorare l’idea, espressa nei Quaderni, secondo cui «linguaggio = pensiero, modo di Beginning of page[p. 110] parlare indica modo di pensare e di sentire non solo ma anche di esprimersi, cioè di far capire e sentire».26 In particolare i temi del «sentire» e della «con-passionalità», che hanno ricevuto una lunga e decisiva trattazione nei Quaderni e che trovano una forte risonanza in Pasolini,27 nel «Laboratorio» non vengono mai presi in esame. L’attenzione è tutta per la produzione precarceraria, dove però Gramsci viene studiato non per le sue riflessioni linguistiche, come accaduto in passato, ma per il suo uso effettivo della lingua.28 Pasolini si concentra in particolare sulla maturazione di Gramsci e sul modo in cui l’influsso della cultura francese abbia condizionato la sua formazione per poi però trasformarsi negli anni dell’esperienza ordinovista, dunque nella fase rivoluzionaria italiana del biennio rosso. Negli scritti di questo periodo Pasolini riconosce un cambiamento di grande rilevanza rispetto al passato. Il razionalismo francese in Gramsci non è più un fattore esteriore o un complemento argomentativo della sua meditazione politica. Non è parte di un procedimento analitico che tende all’astrazione. È anzi qualcosa di interiorizzato e di politicamente operativo, capace in questo modo di dare forma alla dimensione vivente e attiva della lotta politica. È insomma un buon razionalismo, immune dalle derive — o verrebbe da dire dalla «dialettica dell’illuminismo» — che trasformano la ragione in uno strumento di potere delle classi dominanti.
La compenetrazione di vita e forma, ovvero dell’elemento processuale, costantemente in divenire e del tratto che predilige invece la sua segmentazione volta all’analisi, spinge Pasolini a non rinunciare completamente allo strutturalismo, seppure attraverso una strada diversa e alternativa a quella francese. Ed è proprio in questo frangente che ritorna la riflessione sul valore. Il marxismo è infatti in grado di spiegare la processualità, sa vedere il reale nel suo divenire storico, nelle sue trasformazioni e nei conflitti che alimentano il suo avanzare magmatico. Lo strutturalismo, invece, astrae e come si accennava prima propone una «geometria del magma». Da qui segue la predilezione di Pasolini per il marxismo, cioè «l’unica ideologia — scrive — che Beginning of page[p. 111] mi protegga dalla perdita della realtà».29 Proprio come però accade in Gramsci anche Pasolini si propone di incorporare e integrare al suo marxismo quegli elementi del pensiero strutturale che consentano di pervenire a un buon razionalismo immune dai ripiegamenti regressivi che disarcionano la lingua dall’esperienza del reale e che nei tempi più recenti hanno portato alle derive del postmoderno e al debolismo filosofico. Lo studio delle forme non è sufficiente, occorre integrare l’analisi all’indagine materialista. La sintesi tra i due metodi trova in particolare sbocco nella nozione di valore e in particolare nella specifica declinazione sviluppata dal padre nobile dello strutturalismo, Louis Hjelmslev, da Pasolini difeso dagli attacchi dello strutturalismo francese.
All’interno del corpus pasoliniano, il nome di Hjelmslev figura solo due volte. La seconda delle due compare nella già citata intervista di Jon Halliday. La prima citazione si trova invece nel «Laboratorio». In questo scritto, dopo aver riflettuto su Gramsci, Pasolini vira sullo strutturalismo del linguista danese, di cui menziona l’intervento al Congresso internazionale di linguistica del 1957, intitolato «Per una semantica strutturale». Pasolini si sofferma in particolare sui meriti di Hjelmslev per aver introdotto la nozione di valore e per averla messa in relazione a quella di processo. Con grande agilità afferma inoltre che questa innovazione teorica potrebbe essere il punto di partenza per una semiotica più prossima alla sua visione di marxista, là dove «marxista» nel campo della linguistica vuol dire per Pasolini materialista in un senso esteso, ovvero come immersione nella realtà, apertura alla comprensione della dinamica sociale, apertura cioè al magma.
È indubbio che il passaggio da Hjelmslev al marxismo possa apparire come una sorta di provocazione teorica, simile ad altre presenti nelle riflessioni teoriche degli scritti di Empirismo eretico. È in effetti curioso che Pasolini cerchi una sponda proprio in un linguista di non facile lettura come Hjelmslev, tra quelli che più hanno riflettuto sugli aspetti formali dei sistemi linguistici e soprattutto così distante sul piano epistemologico dal marxismo, incluso quello eterodosso di Pasolini.Beginning of page[p. 112]
La risposta può forse essere trovata nella particolare attenzione che il linguista danese ha riposto sul rapporto tra i sistemi linguistici, intesi come schemi formali, e la nozione di «uso», introdotta negli anni Quaranta e poi ripresa nel 1957 nel saggio noto a Pasolini. L’«uso», da quello che si ricava dagli scritti di Hjelmslev, è strettamente legato alla nozione saussuriana di parole, ne è anzi la sua espansione e problematizzazione. L’«uso» ha in particolare a che fare con l’impiego concreto della lingua, sia sociale che individuale. È per questo una categoria spuria, che chiama in causa non semplicemente gli elementi formali dei sistemi espressivi, ma anche la loro sostanza. Come si legge proprio nelle pagine di «Per una semantica strutturale» i valori che l’uso esprime non sono negativi, ossia dedotti differenzialmente dalla totalità del sistema. Secondo Hjelmslev, i valori dell’uso emergono dalla pratica concreta che gli utenti fanno della lingua, la quale in quest’ottica viene presa in esame non come sistema astratto, sincronicamente definibile, ma come insieme instabile di sostanze, da un lato messo in forma dai parlanti attraverso gli atti di enunciazione e, dall’altro, sottoposto alle continue oscillazioni dell’uso, che sul lungo periodo mutano l’identità dei sistemi linguistici, secondo una modalità che ricorda le trasformazioni molecolari descritte da Gramsci per mostrare il rapporto tra espressione individuale e la lingua.
A questo punto, verrebbe forse da chiedersi se dall’innesto di Hjelmslev sia possibile edificare un’intera linguistica marxista, come si proponeva di fare Pasolini nel suo «Laboratorio». Si tratta di interrogativo legittimo di cui mi sento di rispondere soffermandomi solo sulle sue premesse di una simile impresa. Quello che è infatti interessante è che la prossimità con Gramsci, per quanto limitata e circoscritta, trova conferma nell’idea di Hjelmslev secondo cui in linea di principio anche l’uso singolare, quantunque molecolarmente, contribuisce a determinare la norma linguistica.
Per esplorare tutta la profondità di questo parallelismo occorre però orientare l’attenzione verso una parte della riflessione del linguista danese per molti versi distante da quella più strettamente legata alla nozione di sistema e alle sue importanti implicazioni con il principio di immanenza, sfruttato ampiamente dallo strutturalismo e dal post-strutturalismo francese, tra cui Gilles Deleuze e molti altri studiosi che a lui si sono riferiti. Cogliere la lingua alla luce dei valori espressi Beginning of page[p. 113] dall’uso significa infatti non solo violare il principio di immanenza, ma anche riferirsi alla lingua nel suo divenire, coerentemente con il proposito pasoliniano di fondare una nuova linguistica marxista. Leggiamo a questo proposito una lunga citazione tratta ancora una volta dal «Laboratorio»:
Il fatto di essere italiano mi «costringe» a non essere strutturalista, a non avere la «testa» dello strutturalismo. Io vivo in un establishment idiota quanto precario. Non ho intorno alcuna certezza sociale. Per esempio le strutture foniche e grammaticali della mia lingua sono instabili, arbitrarie, infinitamente cangianti, infinitamente turbate da forme concorrenti, e tenute insieme da una volontà ordinatrice o fittizia o autoritaria ecc. ecc. Io, parlando — nell’atto puro e semplice del parlare — vivo una struttura che si sta strutturando: contribuisco io stesso, e lo so, a tale strutturazione, che non so tuttavia su cosa si fonda e cosa sarà ecc. ecc. […] Per tutte queste ragioni non posso e non potrò mai rinunciare a una tensione dovuta al desiderio di portare ordine nel magma delle cose, e non di accontentarmi di saperne la geometria (ossia non ho e non avrò mai altra alternativa che il marxismo).30
Il riferimento all’italianità trova spiegazione all’interno dello stesso «Laboratorio» in un passaggio in cui Pasolini, in modo indubbiamente frettoloso e schematico, contrappone «il francese comunicativo e scientifico» all’«italiano espressivo e irrazionalistico». Si tratta dunque di semplificazioni da prendere con beneficio d’inventario. Ad ogni modo in questo passo, come nell’intervista da cui siamo partiti ritorna la presa di distanza dal già citato «razionalismo francese vecchia maniera», che nel contesto strutturalista si traduce nello studio delle forme a discapito delle sostanze. Lo statuto semiotico di queste ultime non solo è spurio e non si adegua al metodo strutturalista, ma come afferma molto bene anche Gilles Deleuze in un suo celebre testo sullo strutturalismo (quasi integralmente dedicato ad autori francesi) tradisce il principio autonomia la dell’ordine simbolico scoperto dagli strutturalisti.31
In Pasolini l’ordine del simbolico non è separabile dall’ordine del reale. Non c’è autonomia. Il cinema è per Pasolini la lingua scritta della realtà e i suoi elementi articolatori sono gli oggetti, le azioni e Beginning of page[p. 114] le passioni ripresi dalla macchina da presa. Sono cioè elementi formali direttamente connessi alla sostanza e alla processualità della semiosi. Ci si consenta a questo punto un riferimento cruciale al pensiero di Hjlmeslev. Come è stato osservato l’«uso» avvicina le posizioni del linguista danese a quelle di Pasolini e in una certa misura anche a quelle di Gramsci. Resta tuttavia un elemento di scarto problematico. Per Hjelmslev il valore che merita di essere studiato dallo strutturalismo è sempre quello che prescinde dalle sostanze e che astrae dai concreti usi linguistici. I punti di contatto con il pensiero pasoliniano rischiano dunque di apparire molto marginali o comunque di essere compromessi.
È allora forse opportuno riprendere un’ulteriore nozione che Pasolini non menziona apertamente, ma che compare proprio nell’intervento del 1957 e che occupa una posizione di estrema rilevanza per comprendere il rapporto tra lingua ed esperienza nell’ottica hjelmsleviana. Mi riferisco quello che il linguista danese chiama «apprezzamento collettivo».32Questa nozione riguarda il primo livello della semiosi, ovvero il livello in cui le sostanze dell’esperienza vengono negoziate, o anzi «apprezzate», proprio nel senso di «ricevere un prezzo», per essere rese pertinenti come valori nel quadro delle opposizioni differenziali della lingua. Gli apprezzamenti collettivi si collocano in questo senso in una posizione molto marginale rispetto all’orizzonte di studio dello strutturalismo. Rompendo il rigido schema di Deleuze, potremmo dire che gli apprezzamenti collettivi riguardano il momento in cui il regno delle strutture dialoga con il regno del reale: un reale che sia per Pasolini che per Hjelmslev è concreto, abitato, vissuto dagli utenti dei sistemi linguistici in carne ed ossa.
Questa lettura, come si può osservare, è possibile però solo se si esce dalle interpretazioni più dogmaticamente immanentiste di Hjelmslev e se si accetta di attraversare il terreno difficile tracciato da una linguistica che Pasolini auspicava a ridefinire in termini marxisti. Quanto siano forti i fondamenti di una simile teoria è tutto da verificare. Quel che è certo è che aprono il dialogo tra la concezione processuale della lingua e il suo studio formale, non più chiuso per principio alla Beginning of page[p. 115] realtà e alla sua molteplicità. Ponendosi «in pieno disaccordo con gli strutturalisti francesi» Pasolini dunque amplia di molto il potenziale teorico di Hjelmslev, che del resto, lasciando ai suoi epigoni la maschera dell’arcigno formalista o le distinzioni fra regno simbolico e realtà, ha affermato che, con lo studio degli «apprezzamenti collettivi», la semantica diviene «osservatorio della storia e, in generale, dell’antropologia sociale»,33 diviene dunque una disciplina che non rinuncia allo studio della processualità dei sistemi linguistici e che non si accontenta di fare la «geometria del magma», ma che si cala nel suo fluire per comprenderne la sua storia, la sua antropologia, il suo divenire in un’ottica molto vicina alle posizioni di Pasolini.
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